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In scena con Julian Beck l'utopia del “fare” va maneggiata con cura

Alfonso Berardinelli venerdì 25 novembre 2016
Escono ora da Empirìa, con una prefazione di Goffredo Fofi, le poesie (daily light, daily speech, daily life, pagine 192, euro 20,00) di Julian Beck, una delle più note e leggendarie figure della controcultura degli anni Sessanta. Nato a New York nel 1925, fondatore del Living Theatre con sua moglie Judith Malina, questo leader carismatico di un'estetica teatrale “rivoluzionaria”, antistituzionale, anarchica e utopica, è stato, con i suoi coetanei scrittori della Beat Generation (Kerouac, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti) uno degli ultimi rappresentanti di quelle che in Europa nel secolo scorso si chiamarono avanguardie. Fofi lo definisce «uno dei più geniali uomini di teatro del Novecento»: il suo «anelito di giustizia e di bellezza» ne ha fatto «uno dei rari autentici profeti che ci è stato donato di conoscere, di veder agire, di ascoltare pensare». In lui si sentivano Eliot e Withman, la rivolta contro i bombardamenti americani in Vietnam, l'influenza delle teorie di Frantz Fanon sulle lotte di liberazione dei neri, la suggestione di Gandhi. «Forse Julian Beck – conclude Fofi – non è stato un poeta grandissimo, non grande come Whitman o come Rimbaud o come Eliot o Auden o Dylan Thomas o Elsa Morante, e neanche come Ginsberg. Ma è stato qualcosa di più, con le sue parole, il suo teatro, è stato per molti un profeta che predicava ma anche praticava una diversa bellezza, una diversa verità, una diversa giustizia, e le dimostrava possibili, qui e subito. È stato il portavoce pieno di un'utopia».
Capisco l'entusiasmo e l'adesione di Goffredo: l'idea che l'artista possa e debba essere “qualcosa di più” di quello che è, gli appartiene e non lo ha mai abbandonato. Quella del poeta profeta è un'idea che viene da tempi remotissimi ma, credo, bisogna intenderla. Poeti e profeti sono stati, oltre che gli autori di grandi libri sacri in diverse religioni, anche, forse, alcuni scrittori moderni come Blake, Hoelderlin, Dostoevskij, Kafka, che non erano uomini d'azione né utopisti attivi. Chiedere all'artista di “fare” e “agire” mi sembra un imperativo morale malinteso e improprio. La vera e migliore arte agisce rafforzando, purificando, ampliando la coscienza, liberandola da illusioni, idee false e anche utopie. Il fare in sé non sempre rende migliori le buone idee. Una mente confusa e inquinata non può che produrre azioni negativamente contagiose, anche quando sembrano “buone azioni” compiute con le migliori intenzioni.