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Il “canone” novecentesco di Ladolfi, dai Maestri all'età globalizzata

Cesare Cavalleri mercoledì 8 aprile 2015
Abbiamo presentato, mercoledì scorso, i primi tre dei cinque volumi della peculiare analisi sulla Poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà compiuta da Giuliano Ladolfi per la casa editrice che porta il suo nome. Gli ultimi due tomi sono, se possibile, ancora più interessanti. Il quarto (pagine 170, euro 15,00) mette in fila quattro Maestri in luce e in ombra, e cioè Vittorio Sereni, Bartolo Cattafi, Pier Luigi Bacchini, Mario Luzi. Sono poeti che soddisfano la prospettiva metodologia di Ladolfi, tesa a segnalare il passaggio dalla parola che parla di sé alla parola che riscopre la realtà.Ladolfi assegna a Sereni un'influenza forse eccessiva sui poeti venuti dopo di lui: secondo me, egli è stato soprattutto uomo di potere all'interno della Mondadori, salvo poi pentirsi di aver scelto collaboratori facili all'intrallazzo, tanto da meritare la benevola ironia di Eugenio Montale nel Diario postumo: «Venne da me tutt'altro che sereno / di ritorno da una lunga seduta, / s'eran decise le sorti di un poeta. / Disse d'aver covato serpi in seno / e di sentire un oscuro senso d'abiezione», eccetera.Molto ben colte le fasi uno e due di Luzi, la seconda non estranea al lavoro della Neoavanguardia. Assai doverosa la valorizzazione della visionarietà propositiva di Cattafi, e della scrittura “vegetale”, ma non ornamentale, di Bacchini: certo, se ai quattro “Maestri” Ladolfi avesse aggiunto Giampiero Neri, la foto di gruppo-non-gruppo sarebbe stata perfetta.Il quinto volume (pagine 310, euro 20,00), tratta dell'Età globalizzata, e ricapitola più espressamente il buon lavoro che Ladolfi ha compiuto con la rivista “Atelier” negli ultimi vent'anni. La prima parte, “Alla ricerca della parola perduta”, comprende diciassette poeti: Valerio Magrelli «rappresenta la consunzione del processo del “disincanto” linguistico durato più di un secolo»; Milo De Angelis e Giovanni Raboni sono «protagonisti indiscussi» del secondo Novecento; Giancarlo Pontiggia «si pone alla ricerca dell'ontologia della classicità»; Maurizio Cucchi «certifica come ogni tentativo di riagganciare la distanza tra parola e realtà, quando non si costruisca su una concezione globale e vitale dell'uomo, è destinato al fallimento»; di Guido Oldani, Ladolfi apprezza il «realismo terminale», e dedica pagine anche a Cesare Viviani, Franco Buffoni, Giuseppe Conte, Lino Angiuli, Gianni D'Elia, Giuliano Mesa, Roberto Deidier, Salvatore Ritrovato, Antonio Riccardi, Alessandro Ceni, Antonella Anedda.La seconda parte, “La vertigine della parola 'che dice'”, è la più aperta e avventurosa, e riguarda sedici poeti. Posto d'onore, ovviamente, per Andrea Temporelli (Marco Merlin), storico collaboratore di Ladolfi; di Paolo Fabrizio Iacuzzi è sottolineato il tentativo poetico (riuscito) di uscire dall'adolescenza verso un'assunzione di responsabilità; Riccardo Ielmini è visto «in rapporto cordiale e sereno con la vita»; la storia, «serbatoio di metafore», è collocata da Alessandro Rivali «in un presente visionario»; in Daniele Piccini, «etica e poetica ritrovano unità di azione», superata l'elaborazione del lutto per la morte del padre; il profetismo di Davide Brullo «ripercorre le tappe dell'eterno dissidio umano scisso tra bene e male, tra diritto e sopraffazione, tra amore per la vita e amore per la morte». E Ladolfi dedica attenzione, talvolta con veri e propri saggi, anche a poeti che, con rammarico, possiamo soltanto elencare: Umberto Fiori, Fabio Franzin, Edoardo Zuccato, Fabio Pusterla, Marco Beck, Paola Lucarini, Simone Cattaneo, Federico Italiano, Matteo Fantuzzi, Davide Nota. Tuttavia, già dall'assortimento dei nomi, si coglie l'importanza del repertorio elaborato da Ladolfi nelle 1.434 pagine dei cinque tomi, destinato a porsi con termine di riferimento e di discussione per i critici d'oggi e di domani.