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Il Totò di Isotta Quasi un santo, ma inguardabile con Pasolini

Cesare Cavalleri mercoledì 10 marzo 2021
Ah, che dolore, che dolore parlare dell'ultimo libro di Paolo Isotta, libro già postumo perché l'autore è morto a settant'anni il 12 febbraio scorso! Come critico musicale fu inventato da Indro Montanelli che nel 1974 chiamò al Giornale quel ventiquattrenne coltissimo, lauree in Lettere e in Giurisprudenza, con studi di pianoforte e composizione al Conservatorio. Nel 1980 trasferì al "Corriere" la sua prosa tagliente e suprema, rimanendovi fino al 2015. La sua libertà di giudizio gli procurò nemici, pronto a pagare di persona. Nel 2013 un articolo severo sul maestro Daniel Harting e, indirettamente, sul suo mentore Claudio Abbado, irritò talmente il sovrintendente della Scala, Stéphane Lissner, da negare in futuro a Isotta l'ingresso nel Tempio della Lirica. Il direttore del Corriere, Ferruccio de Bortoli, difese nobilmente il suo critico. Ma nel 2015, il successore di Lissner, Alexander Pereira, si recò appositamente a Napoli per incontrare Isotta, come per chiedere scusa. Isotta ha scritto molti libri musicologici e altri preziosi saggi, fra cui La dotta lira. Ovidio e la musica, e Verdi a Parigi, di cui si è occupata anche questa rubrica. Ma veniamo al primo libro postumo, San Totò (Marsilio, pagine 310, euro 19). Devo dire che non sono mai stato ammiratore di Totò: con quel mento lungo e storto, con quel limitatissimo repertorio di mossette delle sue articolazioni snodate, non mi ha mai fatto ridere. E le sue poche battute, pur diventate celebri, appartengono a un genere di commedia dell'arte che mantiene un retrogusto di stantìo. Invece il napoletano Isotta venera illimitatamente il napoletanissimo Totò. Il libro è in due parti: le prime 73 pagine sono un saggio critico-biografico sull'attore; tutte le altre sono schede critiche di ciascuno dei 91 film di Totò, dal 1937 al 1966 (morì l'anno dopo, a 69 anni). La scrittura di Isotta è sempre affascinante, avvolgente, precisa fino allo scrupolo nelle citazioni bibliografiche. Anche a non amare Totò, si amano le pagine di Isotta. A chiamarlo "San Totò" fu Federico Fellini, che peraltro non fece mai un film con lui. Del resto, ai suoi funerali e poi nei pellegrinaggi alla sua tomba fiorì una devozione popolare che impetrava grazie al comico defunto. A dimostrazione dell'onestà critica di Paolo Isotta c'è il suo severo giudizio su Uccellacci e uccellini (1966), di Pier Paolo Pasolini. Totò, che pur aveva lavorato con registi del calibro di Vittorio De Sica, Dino Risi, Mario Monicelli, Alberto Lattuada, Carlo Rossellini, tanto per far nomi, era entusiasta della sua interpretazione pasoliniana da cui si riprometteva l'ingresso nella "cultura alta". Gli altri pur grandi registi, infatti, l'avevano utilizzato poco più che come caratterista. Invece a Isotta «la pellicola pare davvero scadente, e addirittura la peggiore... Non è Totò, ma non è nemmeno un'altra cosa: è il puro nulla». Perfetto. Confermo di non essere ammiratore di Totò, ma resto ammiratore di Paolo Isotta, nonostante la sua adesione al Partito radicale. Agrodolce il rimpianto per un colloquio interrotto.