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Il tempo di riconoscere chi è dalla parte della pace

Salvatore Mazza sabato 30 aprile 2022
«Dove sono finiti tutti fiori? Li hanno
colti le ragazze. E dove sono finite tutte le ragazze? Sono andate con i ragazzi. E dove sono finiti tutti i ragazzi? Sono tutti in uniforme. E dove sono finiti tutti i soldati? Sono tutti nei cimiteri. E dove sono finiti i cimiteri? Sono tutti coperti di fiori. E dove sono finiti tutti i fiori? Li hanno colti le ragazze... Quando, quando mai lo impareranno?». Sono i versi, in breve, di Were have all the flowers gone?, una ballata scritta nel 1956 da Pete Seeger e divenuta nel decennio successivo l'inno del movimento pacifista in tutto il mondo. Tradotta in quattordici lingue (anche in russo, ma solo nel 1998), con la sua angosciosa, ineluttabile "circolarità", la canzone mette a nudo la follia di tutte le guerre, follia che si ripete sempre uguale a se stessa, e che sembra impossibile da interrompere.
La guerra in Ucraina ripropone per l'ennesima volta questa «follia», come l'ha definita papa Francesco, con tutte le inquietanti domande che si porta appresso. È giusto armare i resistenti ucraini, o serve solo ad allungare la scia dei morti? La Nato o l'Onu dovrebbero intervenire, come è stato fatto in altre occasioni, anche se questa volta il rischio è la guerra nucleare? Come si può fermare un aggressore che vuole non solo vincere, ma annientare l'aggredito? Il pacifismo non rischia di lasciare mano libera a tutti i prepotenti del pianeta? Non è fuori dalla realtà pensare che alle armi si possa rispondere incrociando le braccia?
Il 15 febbraio 2003 il cardinale Roger Etchegaray arrivò a Baghdad quale inviato speciale per incontrare Saddam Hussein e consegnargli una lettera personale di Giovanni Paolo II. Nella lettera Wojtyla chiedeva che il leader iracheno «per il bene del suo popolo» agevolasse in ogni modo le richieste dell'Onu, e desse la disponibilità a fare «un passo indietro», eventualmente anche a lasciare il Paese, proposte che il leader iracheno si disse pronto a valutare. Tutti, o quasi, lo interpretarono come il tentativo "disperato" di un Papa sognatore, quando invece era molto di più. Il 5 marzo successivo il cardinale Pio Laghi compì un'analoga missione a Washington per incontrare George W. Bush, in mano la lettera del Papa con dentro anche la risposta di Saddam e il contenuto del colloquio avuto in Vaticano con il vice premier iracheno Tareq Aziz. Bush però neppure aprì la lettera del Papa, quando invece avrebbe dovuto, e questo non ragionando col senno di poi. Ma il Papa era solo, e nessuno, in primis l'Europa, volle schierarsi dalla parte della pace.
Oggi si ripropone la stessa situazione. Sul fronte della pace Francesco è solo. Nessuno vuole credere che ci sia un'altra opzione, al tavolo delle trattative i protagonisti del conflitto sono soli. Nessuno vuole sedersi con loro. E in quale pace si può sperare se, a trattare, aggressore e aggredito sono soli? «È triste che in questi giorni – ha detto Bergoglio domenica scorsa, nella ricorrenza della Pasqua ortodossa –, che sono i più santi e solenni per tutti i cristiani, si senta più il fragore mortale delle armi anziché il suono delle campane che annunciano la risurrezione; ed è triste che le armi stiano sempre più prendendo il posto della parola. A tutti chiedo di accrescere la preghiera per la pace e di avere il coraggio di dire, di manifestare che la pace è possibile. I leader politici, per favore, ascoltino la voce della gente, che vuole la pace, non una escalation del conflitto». Questo va fatto.