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Il nostro dolceagro «morire»: tema ancora tutto aperto

Gianni Gennari sabato 23 gennaio 2016
Dolceagro. Ieri qui (p. 15) ottimo Luciano Moia su “Vedere oltre” della Lindau, editore anche mio per il libro su Teresa di Lisieux. È il “dolce”, ma arriva l'agro. Argomento del libro, occultato per strategia editoriale, il senso del morire nelle grandi religioni. In anteprima però la prefazione prestigiosa di Emanuele Severino nel merito non c'entra niente, o da 60 anni entra ovunque con la tesi assoluta che nega ogni divenire e che l'essere è sempre lo stesso, per lo più incomprensibile a tutti, salvo l'Autore. E ovviamente con l'annuncio che la Chiesa cattolica è finita! Il nome attira e lascia a bocca asciutta: si legge e tanti fingono di capire. Per intenderci alla “Potemkin”. Veniamo al libro: 472 pagine di pensieri molteplici sul morire nelle tre grandi religioni e altre varie, ma in sostanza molto incompleti. Dentro per fortuna (pp. 167-182) un profondo studio di Gianfranco Ravasi sul morire nella Bibbia, ma poi? Ogni altro pensiero cristiano, non solo cattolico, manca. Assente la grande teologia dei Padri, e per esempio. in essa l'intuizione magnifica di Giovanni Damasceno – «per gli uomini il morire è quello che per gli angeli fu la tentazione» – che ha prodotto qualche decennio fa scritti magistrali di Rahner, Boros, Troisfontaines non sul prima o sul dopo-morte, ma sul morire come tale. È vera fortuna che alla fine trovi la “postfazione” di Marco Vannini che a modo suo recupera il senso sconvolgente del grande pensiero mistico cristiano, ove tempo ed eternità, speranza e possesso, creaturalità e divinità vengono a incontrarsi. È l'essenza della fede per la vita e per la morte: «Noi già siamo figli di Dio, ma ancora non si vede. Quando si vedrà…» ecc. Servirebbe – eccome! – una rinnovata “teologia dei Novissimi”, magari sulle tracce di Rahner e altri visti sopra. A un prossimo volume?