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Il granello di sabbia di «Lobo» Carrascosa

Mauro Berruto mercoledì 16 gennaio 2019
Minuto sessantanove di Argentina-Germania, 5 giugno 1977, manca un anno esatto alla manifestazione sportiva più sporca di sangue della storia. Jorge Carrascosa, detto El Lobo (il lupo), terzino destro della nazionale bianco-celeste è il capitano della squadra sulla quale il regime punta per poter dare in pasto al popolo un'emozione collettiva. L'obiettivo è distogliere l'attenzione dal dramma che il Paese sta vivendo e, contemporaneamente, dare una riverniciata all'immagine dell'Argentina nel mondo, come quei sepolcri imbiancati evocati nel Vangelo. Minuto sessantanove, dunque: sostituzione. El Lobo si sfila dal braccio la fascia e la consegna a Daniel Passarella. Poi stringe la mano all'arbitro Coelho e cammina lentamente verso la panchina. Alzando lo sguardo, vede ancora una volta uno striscione gigantesco, appeso sulle tribune dello stadio più affascinante del Sudamerica, la Bombonera alla Boca. A caratteri cubitali, c'è scritto: Argentina sede del Mundial 1978. Abbraccia Alberto Cesar Tarantini che entra al posto suo, stringe la mano all'allenatore, il Flaco Menotti e si siede in panchina di fianco a Richy Villa che è uscito nel primo tempo. Guarda la gente, assiepata intorno al campo. Giocare alla Bombonera è sempre una cosa speciale. Manca un anno e la gente è già impazzita. Il generale Jorge Rafael Videla ha visto giusto. Il Mundial sarà una cosa da matti.
«Richy, io, il Mondiale non lo gioco» dice Carrascosa al suo compagno in panchina.
«Che cosa stai dicendo Lobo, sei impazzito? Sei il nostro capitano! Guarda che questo Mondiale lo vinciamo! Alzerai tu la coppa!».
El Lobo vede, proprio in quel momento, Luque che crossa quasi dall'angolo e Daniel Passarella segnare un meraviglioso gol di testa. Capisce che non sarà lui ad alzare la coppa, capisce che questo Mondiale, l'Argentina lo vincerà, ma non in suo nome. Perché quattro minuti prima Jorge Carrascosa ha deciso di smettere di essere il capitano di quella squadra e che non giocherà mai più per quella maglia. Non saranno le sue mani a toccare quella Coppa, ricevendola dalle mani insanguinate di Jorge Rafael Videla.
Andò proprio così, l'anno successivo. Dopo una serie di porcherie che portarono l'Argentina in finale, fra le quali la Marmelada Peruana, una partita finita 6-0 per l'Albiceleste che avevo bisogno di segnare molti gol per superare il Brasile nella differenza reti. Il Perù decise di schierare in porta Ramon Quiroga, argentino neo-naturalizzato peruviano, che subì sei reti una più ridicola dell'altra. Anni dopo, si scoprì che a Lima arrivarono anche un milione di tonnellate di grano e una linea di credito da 50 milioni di dollari, omaggio dei generali argentini.
Carrascosa è oggi un sereno signore che la scorsa estate ha compiuto settant'anni, vivendo dignitosamente la sua seconda vita grazie a un lavoro da assicuratore. Avrebbe potuto diventare una leggenda e raggiungere un sogno sportivo difficile perfino da sognare: vincere un Mondiale in casa, da capitano. Questo terzino scomparso dalla memoria perché rinunciò a essere un eroe, ci insegna ancora oggi che ci sono dei valori che non sono negoziabili. Jorge Carrascosa incontrò nel 2016 Massimo Calandri, inviato di "Repubblica", dicendogli: «Certe cose – la patria, l'essere fratelli, la vita o la morte – non hanno niente a che vedere col prendere a calci un pallone. Per questo non mi sono mai pentito della mia scelta. Credo che ognuno di noi possa fare qualcosa per rendere questo mondo migliore. E io, il mio granello di sabbia l'ho messo». Ieri, come oggi: a che cosa siamo disposti a rinunciare? Quale prezzo siamo disposti a pagare? Quanti granelli di sabbia servono per fermare una brutta mareggiata?