Il fotogramma
Era la gabbia del mio canarino, quando avevo quattro anni. Si chiamava Marino, l'avevo portato a casa dal negozio, saltellante nella scatoletta di cartone bucata che stringevo forte nella mano. Lo andavo a salutare, appena alzata. Già dall'aurora lui cantava.
Ma una mattina, d'estate, la gabbia era vuota. È scappato, ho pensato, e l'ho cercato per tutta la casa, disperata. Poi sono tornata alla gabbietta: in un angolo in basso, piccolissimo, c'era un povero ciuffo di piume e ossa. Era solo un canarino, eppure quella gabbia vuota e lui in un angolo, annichilito, sono rimasti per me il primo marchio della morte.
È una pellicola ultrasensibile la memoria, impressionata per sempre da immagini che sembrano da nulla. Un infinito file di voci, suoni, volti. E tutto questo, quando ce ne andiamo, apparentemente scompare.
Ci sarà un luogo in cui viene salvata la memoria di chi muore? Immagino un oceano immenso, cristallino, in pace. Dove Dio custodisce ogni nostro istante: e nemmeno un frammento, va perduto.