Rubriche

Il desiderio

Ivano Dionigi mercoledì 5 febbraio 2020
Presentando agli studenti dell'Alma Mater Luca Parmitano e Samantha Cristoforetti, ricordo di averli introdotti con queste parole: «Dopo aver per mesi "considerato", essere stati in compagnia delle stelle, ora scesi a terra, i nostri astronauti, "desiderano", ancora in preda alla nostalgia dello spettacolo celeste». Infatti desiderare è voce del lessico astronomico: il suo significato originario è "allontanarsi (de) dalle stelle (sidera)", quindi "rimanerne con la voglia", "rimpiangere"; l'esatto opposto di considerare, "stare insieme (cum) alle stelle (sidera)", "meditare". Ma come mai nei classici desiderium è per lo più un disvalore, accoppiato alla paura (metus) o ad aggettivi negativi, quali empio (impium), inutile (inutile), portatore di lutti (luctuosum), pieno di vizi (vitosum), osceno (obscaenum), malvagio (pravum)? Perché la classicità iscrive i suoi valori nel presente, mentre il desiderio, al pari della paura e anche della speranza, rimanda al futuro e cade al di fuori dell'autonomia del saggio, e procura inquietudine e instabilità interiore. Di qui il principio classico secondo cui vivere: nec spe nec metu, senza speranza e senza paura. La spes, giudicata un dulce malum, un dolce inganno, sarà un valore introdotto dal Cristianesimo e poi adottato o adattato dall'Illuminismo e dalle varie ideologie infuturanti.