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Il Covid, la vita e il dovere di preparare il domani

Maria Romana De Gasperi sabato 3 aprile 2021
Di nuovo seduti sulla solita panchina, ecco i due amici di una età indefinibile. Si ritrovano dopo i lunghi mesi d'inverno.
«Olè. Professore, come va?»
«Sono vivo, non si vede ? La barba un po' più bianca, i capelli un po' di meno, le gambe più stanche, ma caro mio, l'anima è felice!»
«Beato te, cosa hai fatto?»
«Sono vivo. Ho passato tre mesi in ospedale in compagnia del virus e sono guarito. Non sai cosa vuol dire riprendersi in mano la vita! Che mi importa se ho le scarpe vecchie, se la mia giacca ha perduto colore: io ho vinto la mia battaglia!»
«Hai vinto per caso una lotteria?»
«Sì, ho vinto la vita! Vedo la gente che passa, l'aereo che vola, l'uccello che grida, sento il bambino che piange e mi fanno sorridere e guardare ogni cosa come fosse creata oggi per la prima volta. Sono uscito dall'ospedale: un luogo di silenzi soffocati, di lacrime lasciate cadere sul viso e non asciugate. Hai paura di chi ti gira attorno coperto di bianco e credi di essere in un aldilà sconosciuto. Allora sei veramente solo e se hai un po' di coraggio dici a te stesso che tutto finirà presto. Poi una voce gentile un mattino ti dice: è tutto finito, adesso puoi andare. Allora finalmente piangi come il bambino che nasce e sente entrare la vita nel suo sangue. E forse nel suo pensiero. Che vuoi che mi importi se ho le scarpe rotte, se ho mangiato solo del pane, se ho bevuto solo dell'acqua? Ho la vita dentro di me, ho il sole, la luna, la pioggia, il vento. Mi sento ricco, amato e anche se sono stonato, come tu sai, posso cantare forte e abbracciare tutto ciò che chiamiamo vita».
«Ma non hai soldi, né lavoro... Come farai?»
«Non importa: oggi cammino e credo nella capacità degli uomini di questo tempo. Credo nella scienza, nella forza di volontà che ci aprirà un futuro per ora solo immaginato, ma che già illumina l'orizzonte della generazione che verrà dopo di noi. I giovani di oggi parlano già un'altra lingua che noi non conosciamo. Essi sono la speranza della terra. Noi giudichiamo il loro modo di vivere perché non assomiglia più al nostro, perché il loro canto ci sembra senza armonia, i disegni dei loro quadri incomprensibili. Essi parlano già un'altra lingua che per noi è difficile capire. Dobbiamo preparare loro il selciato di una nuova strada senza paura di essere lasciati da parte. Anche noi abbiamo fatto così con i nostri genitori pur amandoli fino alla fine. È come la via del sole che se ne va alla sera tra luci e raggi meravigliosi che promettono un nuovo giorno. Così anche noi abbiamo come compito di lasciare segni di strade nuove che abbiamo avuto il coraggio di aprire in questo cielo infinito e silenzioso che in un futuro lontano forse parlerà».