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Il coraggio di un missionario e la scuola che salva

Claudio Monici domenica 24 giugno 2018
L'alba è una leggera pennellata di rosa e cremisi sospesa sull'orizzonte, quando il missionario saveriano dalla barba di chi non ha tempo per radersi entra nel refettorio con in mano una tazza di caffellatte fumante. Vecchie ciabatte, fedeli compagne di una vita che scricchiolano ad ogni passo, e gli immancabili due pacchetti di sigarette nel taschino della camicia, padre Bepi intingendo un pezzo di pane raffermo nella bevanda della prima colazione, accompagnandosi con un colpo di gomito, mi chiede: «Come stanno le tue gambe?».
Lì per lì, non capisco. La notte è stata difficile. Nel quartiere, alle spalle della domus, si è sentito sparare pesantemente, per parecchie ore e il sonno è trascorso in un dormiveglia nervoso. Umutaga umuiza, buona giornata, augura l'amico missionario parlandomi in kirundi, la lingua del Burundi: «Preparati, che andiamo a trovare i miei ragazzi, sulla collina».
L'amico missionario, nel narrarmi le virtù e i segreti della foresta, mi suggerisce anche di stare attento a dove metterò mani e piedi, perché «da quelle parti si nascondono i mamba neri». Serpenti tra i più velenosi e pericolosi. Un solo morso è capace di uccidere dieci uomini. Ma andare per colline, in Burundi, può rivelarsi ancora più rischioso che disturbare il lento strisciare di un serpente, soprattutto quando sono ripresi gli scontri armati tra insorti e militari, come in quei giorni trascorsi assieme a padre Bepi. Ma lui su queste cose proprio ci passa sopra, indifferente ai pericoli che ha già tante volte vissuto. Li mette sul conto del suo "mestiere".
«Bepi, come saluti i tuoi ragazzi quando li incontri?», chiedo al missionario. Quando si parla dei suoi ragazzi lui si illumina, e risponde: Jambo kagabo, "ciao, piccolo uomo". Raggiunto il villaggio dopo più di un'ora di cammino, nessuno ci viene incontro. «Che strano», sussurra l'amico saveriano. Si fa cupo in volto e il sorriso scompare in una smorfia di dolore. Con la mano che cade, mi indica quel che resta della sua scuola. Il tetto sfondato e i banchi spaccati e ammucchiati in una catasta di legna, ora buona solo da bruciare. «Devono essere stati più colpi di mortaio a sventrare l'edificio – commenta affranto padre Bepi, con la rabbia che gli fa fumare una sigaretta via l'altra –. Chi è stato? Ribelli e soldati si incolperanno a vicenda: a loro interessano solo i kagabo.
Bepi, quel giorno, mi confesserà la sua stanchezza di uomo davanti alla stupida distruzione della violenza che si accanisce "contro l'Africa", ma espresse anche tutta la sua cocciuta volontà missionaria di ricominciare di nuovo, da capo. Prendevo appunti sul mio quaderno, quando ecco che a piccoli gruppi vedo riemergere bambini e adulti da chissà quale nascondiglio. Padre Bepi sembra rinascere, e non smette più il suo mantra di gioia: Jambo kagabo. Io mi accorgo che i bambini non distolgono mai il loro sguardo dalla mia penna biro e dal mio quaderno. Li colgo rapiti da uno stato di pura estasi.
«Sulla collina non abbiamo quaderni, costano troppo. Ma i bambini usano lavagnette di legno su cui imparare a scrivere usando bastoncini di bambù e inchiostro di certe bacche. Le lavagnette vengono poi lavate e riutilizzate – mi spiegava quel giorno padre Bepi –. Il problema non è ricostruire la scuola distrutta, ma costruire la fiducia e fornire l'istruzione a questi piccoli uomini. Per non farli diventare piccoli soldati».