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Il campione che si fa portatore d'acqua

Mauro Berruto mercoledì 5 febbraio 2020
La vicenda della nazionale italiana di rugby nel prestigioso torneo "Sei nazioni" continua ad essere particolarmente complicata, almeno da un punto di vista agonistico. Nonostante il nuovo coach, Franco Smith, un nuovo capitano, Luca Bigi e una rinnovata filosofia (che, tra l'altro, vede protagonisti molti atleti giovani) siamo arrivati alla ventitreesima sconfitta consecutiva nella storia del torneo e questa volta con un inequivocabile 0-42. Naturalmente ogni giudizio e sospeso, i grandi cambiamenti impongono di essere analizzati dopo aver concesso loro il tempo giusto per arrivare al risultato desiderato. Non è questo, dunque, il tema di questo articolo. Questa mia riflessione prende in esame un momento specifico della gara disputata dagli Azzurri al Principality Stadium di Cardiff, davanti a 68.582 appassionatissimi tifosi gallesi, tutti vestiti di rosso. Proprio un attimo che, peraltro, neppure è stato parte del gioco: per la precisione si tratta di un'interruzione del gioco. Il cronometro segna 36:57 e le squadre si fermano. Si chiama timeoff ed è il momento in cui possono entrare in campo i waterboys, quei ragazzi che indossano la pettorina gialla con un inequivocabile scritta: H20. Sono coloro che correranno a portare le borracce d'acqua agli atleti della propria squadra, porteranno conforto ai quindici gladiatori nell'arena. Giovanotti che permettono ai campioni di dissetarsi, aspettano con rispetto che si compia il gesto, riprendono la borraccia al volo e corrono via, felici di aver contribuito, con quell'azione umilissima. Tuttavia succede qualcosa di strano: le immagini televisive inseguono uno di questi ragazzi che si sta allontanando con la sua pettorina e la borraccia in mano e che non sembra proprio un giovanotto. Il maxischermo dello stadio rilancia quelle immagini e i 68.582 impazziscono. Applausi scroscianti, urla. Per uno dei waterboys? Già, proprio così. Perché quel volto rimbalzato sui grandi display del Principality Stadium è quello di Sam Warburton, 49 volte capitano della nazionale gallese che a ventinove anni si è dovuto ritirare, nel luglio del 2018, martoriato da una sequenza infinita di infortuni.
Warburton, universalmente riconosciuto come uno dei più grandi giocatori di rugby del Galles (dove il rugby è una religione) aveva dovuto lasciare dopo 74 presenze con la nazionale, oltre a una gloriosa carriera con i suoi club. Un'icona dello sport di una nazione che vive di palla ovale e, di conseguenza, si nutre dei valori che la palla ovale insegna. Una specie di Roberto Baggio (l'esempio non è casuale, anche in virtù dei massacranti infortuni che hanno segnato la carriera di questi due campioni) che sfinito, diciotto mesi fa, lascia il rugby giocato dicendo una frase che spiega tutto il resto: «Voglio restituire al mio Paese quello che ho ricevuto nel corso della mia carriera». C'è chi lo dice e c'è chi lo fa. Warburton lo dice e lo fa, indossando una pettorina gialla e correndo a dissetare i nuovi campioni. Una manciata di secondi che valgono il prezzo del biglietto, direbbero i telecronisti di una volta. Perché quella capacità di essere leader silenziosi e di conquistare la propria leadership con l'esempio, con le azioni, non passerà mai di moda. Sembrerebbe, a giudicare da quello che vediamo e leggiamo ogni giorno, il contrario, ma quello stadio strapieno di Cardiff che esplode in un boato assordante quando vede uno dei suoi più grandi eroi, capaci di un gesto di servizio e di umiltà assoluta, lascia una porta aperta sulla speranza. «Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi», diceva Bertolt Brecht e, aggiungiamo, beato quel popolo che può applaudire un eroe che è capace di fare il waterboy.