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I libri e gli uomini

Anna Foa martedì 10 settembre 2013
Che il maggior poeta tedesco dell'Ottocento sia stato un ebreo, Heinrich Heine, non dovrebbe stupirci, se pensiamo alla grande fioritura della cultura ebraico-tedesca tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento. Convertito nel 1825 al protestantesimo, per dirla con le sue stesse parole «come biglietto d'ingresso nella società», Heine ben appartiene a quel movimento di assimilazione degli ebrei tedeschi che comincia con la generazione successiva a Mendelssohn, a fine Settecento, e termina con la generazione di Rosenzweig, nel terzo decennio del Novecento. È un momento in cui la cultura degli intellettuali che restano ebrei e quella di coloro che si convertono è assai simile, in cui il passaggio dall'ebraismo al cristianesimo, lungi dall'essere un passaggio radicale da un'identità all'altra, rappresenta solo uno slittamento più o meno lieve verso un'altra dimensione religiosa. Ben lo compresero i nazisti che consideravano le conversioni come un cavallo di Troia ebraico nella società «ariana». E bruciarono, nei roghi dei libri, Heine assieme a Thomas Mann, Schnitzler assieme a Werfel. Nell'intento di bruciarne gli autori perché, come già aveva scritto Heine nel lontano 1817, «chi brucia i libri finirà per bruciare gli uomini».