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I buoi

Salvatore Mannuzzu giovedì 31 ottobre 2013
Ho detto dei «caos» (sardo): i torsoli delle pannocchie; in italiano tutoli (in veneto «botoi»?). Erano anche il primo, spesso unico giocattolo dei bambini poveri del paese. Ne bastavano due; e una piccola lista di legno, nella quale il babbo (o lo zio) intagliava col coltello due cavità tondeggianti, parallele: a imitazione d'un giogo per buoi. I buoi erano i due caos; e a quel giogo venivano sottomessi, uno per cavità, con la raffia. Il bambino, di pochi anni, li guidava spingendoli avanti con uno stecco che simulava il pungolo: senza stancarsi di incitarli, rimasto solo, di chiamarli per nome: «Biluò! Colorì!» Come sentiva fare dal babbo: imitandone, con la sua vocetta, la cantilena, poi l'impazienza e la rituale ira. I buoi potevano essere dotati del carro. Bisognava tagliare per lungo un pezzo di canna, lasciandone intatto l'ultimo nodo, che fungeva da stanga. Il resto veniva gradualmente divaricato a formare un triangolo, tenuto aperto con listarelle anch'esse di canna, dalla lunghezza crescente. Quello era il mondo, allora, per quella gente: e per i suoi bambini, che non ne conoscevano altro («Biluò! Colorì!»). Un mondo ora scomparso (da quando?): perduto, riprovevolmente dimenticato. A distanza di tanti anni, io che l'ho tradito lo ritrovo mio come forse nessun altro.