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Godiamoci Messi, il normale eccezionale

Italo Cucci venerdì 19 marzo 2010
Guardavo Leo Messi, l'altra sera, sì da appassionato, ma soprattutto con occhi paterni: un ragazzo così, un figlio così, a chi non piacerebbe? Bravo. Serio. Operoso. È l'antibamboccione per eccellenza il fuoriclasse del Barcellona. Ha ventitrè anni ed è già - come si dice - padrone del mondo. Ma non è un divo. Mi ricorda il primo Baggio, quello dei trionfi dolorosi, perché anche Leo ha una storia amarissima da raccontare e quasi la leggi nei suoi occhi che sono sempre pieni di gioia stupefatta quando gli riesce l'assist giusto o realizza il gol mai uguale al precedente. Stava segnando di testa, l'altra sera, rapinando il tempo ai gnoccoloni dello Stoccarda, ma non s'è fermato: ha continuato a macinare chilometri sul sacro suolo del Camp Nou dove ne han visti tanti, di campioni, ma uno così mai. E poi dicono che il Barcellona è Guardiola. Mazzone era fiero della sua modestia quando dicevano che il suo Brescia era il Brescia di Baggio. Ho conosciuto Leo quando ancora non aveva diciott'anni. Ed era già un campione. Lo accompagnava un papa' giovanissimo, suo primo allenatore quando, a cinque anni, con i soldini della nonna nacque a Rosario la squadretta del Grandoli. Ne parlavan tutti, come del microMaradona delle Cebollitas. Ma in pochi anni la sua leggenda diventava una storia dolorosa, la Via Crucis d'un adolescente che rischiava di restare un nanetto per una grave disfunzione strutturale. Alle poche domande rispose più con i sorrisi che con le parole, stupito delle attenzioni, dei flash, delle telecamere. Quando ne chiesi al padre, disse solo che Leo non avrebbe mai lasciato il Barcellona perché quel club potente e orgoglioso che rinuncia ai soldi degli sponsor e regala il petto dei suoi giocatori all'Unicef aveva dato a suo figlio non solo l'opportunità di farsi campione ma la vita. Sottoponendolo alle cure per colmare la deficienza di somatropina che - nel suo caso - provocava il nanismo ipofisiario. Non è una novità, ma voglio sottolineare il dato scientifico perché la somatropina ha nello sport una triste fama: è il famigerato ormone della crescita, il doping degli atleti sleali, dei ladri di vittorie e gloria. Ed è singolare il fatto che mentre a Barcellona con il GH guarivano il ragazzino e pian piano lo avviavano ai trionfi mondiali, al Pallone d'Oro e cento altri trofei, a Madrid trionfava la scuola di Eufemiano Fuentes, il dottor Caligaris dello sport nel cui laboratorio la polizia spagnola trovò cento sacche di sangue appartenenti a campioni di mezza europa - ciclisti italiani compresi - che si servivano della sua clinica come di una banca e andavano a Madrid a "lavarsi" il sangue per tornare a vincere. Pardon: a rubare. Ecco perché amare Lionel Andrès Messi: la sua bravura è una delle ormai rare risorse umane del calcio moderno, la sua storia una lezione di vita che non si nutre dell'abituale retorica pallonara, delle solite iperboli e delle polemiche di pedatori e allenatori e arbitri che la fanno da protagonisti quotidiani. Detto da un antico lettore, l'ottimo giornalista Edmondo De Amicis l'avrebbe felicemente collocato nel suo pantheon dei buoni sentimenti tanto più importante delle Hall of Fame che spesso accolgono divi viziati e drogati. Forse per questo Leo ha una moderata vita da campione, non vissuta nei tabarin, non strillata dai gossipari, non celebrata per euromilioni. Godiamoci la sua eccezionale normalità.