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Gli amari cioccolatini anticapitalisti di Lafargue

Cesare Cavalleri mercoledì 27 agosto 2014
La curiosità intellettuale e la competenza bibliografica di Augusto Zuliani l'hanno indotto a riesumare il pamphlet di Paul Lafargue La religione del capitale (Mimesis, pp. 168, euro 9,90), apparso nel 1887. Nell'ampio saggio introduttivo, Zuliani ripercorre la biografia del personaggio, inquadrandola nella convulsa temperie ottocentesca del socialismo e del comunismo francesi, caratterizzati fin dall'inizio da scontri ideologici che spesso mascheravano, anche allora, accese rivalità personali.Lafargue era nato a Santiago de Cuba nel 1842, creola la madre ed ebreo francese il padre. Iniziò gli studi di medicina in Francia, ma fu allontanato dall'università per aver proposto l'abolizione del tricolore a favore del solo colore rosso. Si trasferì a Londra per completare gli studi e lì frequentò prima Engels e poi Marx, del quale sposò la secondogenita Laura nel 1868.Colto e battagliero, efficace oratore, Lafargue partecipò alle varie formazioni socialiste e comuniste in Inghilterra e in Francia, i cui tumultuosi congressi spesso sfociavano in scissioni, gemmazioni e ricomposizioni che Zuliani riesce a descrivere senza perdere il filo e senza nascondere la parte attiva che la massoneria ebbe in quei tumulti. La linea radicale di Lafargue e Guesde ebbe solo temporanei armistizi con la linea riformista e vincente di Jaurès.Per la sua militanza Lafargue conobbe anche il carcere e il 26 novembre 1911, a 69 anni, si tolse la vita, insieme alla moglie Laura, con un'iniezione di acido cianidrico. Questo l'estremo messaggio: «Sano di corpo e di spirito, mi uccido prima che l'impietosa vecchiaia mi tolga uno a uno i piaceri e le gioie dell'esistenza e mi spogli delle forze fisiche e intellettuali. Muoio con la suprema gioia della certezza che, in un prossimo futuro, la causa alla quale mi sono votato da quarantacinque anni trionferà. Viva il Comunismo. Viva il socialismo internazionale». Ai funerali partecipò il Gotha del socialcomunismo europeo, Lenin compreso, ma il duplice suicidio fu considerato dai compagni una diserzione dalla lotta.Nella troppo lunga prefazione, Fabio Minazzi dell'Università degli studi dell'Insubria (Varese) si sforza di ricondurre le teorie di Lafargue all'ortodossia marxista della lotta di classe, trovando agganci nell'attualità: ma nel suo più importante libro, Il diritto all'ozio (1880), Lafargue demitizza il "valore" del lavoro, a cui Marx riservava centralità, pur elogiando lo scritto del genero, peraltro sospettato di simpatie anarchico-bakuniniane.È attuale la veemente requisitoria di Lafargue contro il capitale, in termini di feroce parodia della religione cattolica? In tempi di finanziarizzazione mondiale dell'economia sembrerebbe di sì, ma troppo diverso è il contesto odierno, per interpretare il quale il concetto di "lotta di classe" è metodologicamente inadeguato. Oggi, infatti, la globalizzazione sposta l'attenzione sullo squilibrio tra Paesi ricchi e Paesi poveri, fra i quali troppo impari sarebbe la lotta: la soluzione può venire solo da accordi internazionali ispirati a solidarietà che alla lunga risulterebbe vantaggiosa per tutti.I sarcastici aforismi dell'Ecclesiaste, o il libro dei capitalisti di Lafargue, si leggono con un sorriso amaro come biglietti per cioccolatini infernali: «Il capitalista non ha nessun principio, neanche quello di non avere princìpi»; «Addormentandosi è meglio dirsi: ho realizzato un buon affare piuttosto che una buona azione»; «Il capitalista non riconosce al salariato nessun diritto, neanche il diritto a essere sfruttato, cioè il diritto al lavoro»; «Rubare alla grande e restituire poco, si chiama filantropia»; «Dalla bocca che mente nasce la Borsa».