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Gertrude Stein alla deriva nel mare della lingua

Cesare Cavalleri mercoledì 28 aprile 2010
Esce la traduzione italiana di un libro che Gertrude Stein ha scritto nel 1922, Geografia e Drammi (Liberilibri, pp. 448, euro 20), ed è subito festa per noi fedeli della grande sacerdotessa delle avanguardie (anche pittoriche) del Novecento. C'è un pizzico di snobismo nella nostra ostinazione a leggere e rileggere testi quasi incomprensibili come gli steiniani, ma è una vertigine a cui è difficile rinunciare, perché le insistite ripetizioni, gli accostamenti verbali incredibili, le metafore nominali di cui Gertrude ha l'esclusiva non sono funambolismi insensati come certa neoavanguardia nostrana (anche sanguinetiana), o certe mistificazioni di Joyce, bensì celano un sovrasenso come le crittografie mnemoniche, come certi rebus enigmistici.
Una simile scrittura è un rompicapo per i traduttori, e dobbiamo a Cesare Pavese la traduzione, nel 1938, del libro più noto della Stein, l'Autobiografia di Alice Toklas. Fiorenzo Iuliano, che ha tradotto Geografia e Drammi, se l'è cavata assai bene, anche a giudicare dalla poche note che ha ritenuto di aggiungere, e comunque è chiaro che nel caso dei testi di Gertrude, tradurre vuol dire interpretare, decifrare.
Assolutamente eccelsa l'introduzione di Nadia Fusini, una specialista che già aveva prefato Teneri bottoni per lo stesso editore (1989, 2006). Sentite qua: «Lotta contro il passato, Stein. E si dedica senz'altro alla scrittura avendo del tutto spogliato la lingua di ogni compito realistico, naturalistico, di comunicazione. Semmai, accentua il divorzio tra significante e significato, e va fino all'estremo opposto; coniugando una piena significazione a un grado di comunicazione tendente a zero».
In questo libro, che raccoglie scritti eterogenei, in prosa e in versi, c'è anche Emily sacra, che contiene il celeberrimo verso «Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa», che Gertrude stessa ha spiegato in una conferenza americana del 1934 per precisare che la poesia si regge sul sostantivo, mentre la prosa sul verbo: «Quando dissi. Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa. E poi più tardi questo lo foggiai in un cerchio io feci poesia e che cosa avevo fatto avevo accarezzato completamente accarezzato e chiamato un sostantivo».
Del resto, ecco la dichiarazione, in Exil, del sommo Saint-John Perse: «"Io abiterò il mio nome", fu la tua risposta ai questionari del porto. E, sui tavoli dei cambiavalute, tu altro non hai che torbido da produrre, come le grandi monete di ferro esumate dal fulmine».
Ma ascoltiamo da vicino che cos'è la ripetizione per Gertrude Stein. Il lungo brano intitolato Italiani comincia così: «Alcuni di quelli stavano dove stavano anche tanti altri. Alcuni di quelli stavano dove non stava nessun altro. Uno di quelli stava dove non era mai stato nessun altro di quelli, di quello stesso tipo, e questa era una cosa molto importante per chiunque l'avesse davvero vista, per chiunque l'avesse davvero sentita. Sarebbe stato davvero scoraggiante vederne altri, di quelli. Era pura disillusione andare proprio in quel posto dove ce n'erano tanti, di quelli. E se ce n'erano tanti, di quelli, allora ce n'era più d'uno. E se ce n'era più d'uno, allora, ce n'erano tanti, di quelli, e se ce n'erano tanti di quelli allora potevi conoscere chiunque, tra quelli»... e avanti così per una ventina di pagine.
Un grazie a Nadia Fusini che ha scritto, a nome di tutti: «Per tutti i suoi devoti lettori, se c'è qualcosa di sovrumano, di divino in Gertrude Stein è la sua distanza dalle passioni umane più comuni, tra cui quella di comunicare. Noi devoti leggiamo la pagina steiniana avendo accettato la sospensione del significato, e navighiamo a vista in una dimensione di assenza di senso, avendo oltrepassato le colonne d'Ercole del bisogno di assegnare a ogni significante il suo significato, verso il mare aperto di un'avventura in cui la lingua è una sorpresa. In questo senso Gertrude è "sacra": una forma di autismo felice la rende "superiore". E noi la veneriamo».