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Forse non è Crisostomo, ma anche l'anima non è solo nervi

Cesare Cavalleri mercoledì 9 dicembre 2020
Nella collana dal suggestivo nome “Le ispiere” (esistono i dizionari, e anche Wikipedia), le edizioni Dehoniane di Bologna pubblicano col titolo La forza della preghiera due omelie dello Pseudo–Giovanni Crisostomo che nel Clavis Patrum Graecorum figurano come De precatione homiliae (pagine 64, euro 8,50). Perché «Pseudo»? Perché sulla paternità del prezioso scritto gli studiosi non sono concordi. Come spiega il curatore e traduttore Lucio Coco, anticamente per dare autorevolezza al testo di un autore «minore» talvolta lo si faceva confluire nel corpus letterario di un classico al quale il «minore» evidentemente si era ispirato. Favorevoli all’autenticità crisostomica, spiega Coco, sono Henry Savile (1613) e Fronton du Duc (1621), celebri editori delle opere di Giovanni Crisostomo; invece, Bernard de Montfaucon (1718) non ne era affatto sicuro. Anche due importanti studiosi del Novecento non sono concordi: P. Vogt (1905) propende per l’autenticità; J. Weyer (1952) è di parere opposto. L’ispiera di cui stiamo parlando, attribuendo il testo allo «Pseudo–Giovanni Crisostomo», condivide i dubbi. Il Crisostomo, padre antiocheno (344/354–407), naturalmente scrisse in greco; la prima traduzione latina fu approntata addirittura da Erasmo da Rotterdam nel 1525, con questa nota di dubbio: «Sembra che questa seconda orazione non possa essere del Crisostomo, ma di uno studioso che si era esercitato nell’imitare la prima orazione, a meno che si preferisca che il Crisostomo abbia scritto sullo stesso argomento in tempi diversi». Bene ha fatto, dunque, Lucio Coco ad attribuire allo «Pseudo–Giovanni» la sua traduzione, che è la prima in lingua italiana. Ma qual è il contenuto del trattatello? L’Autore espone la dottrina tradizionale dei Padri della Chiesa in materia di preghiera, e questa è una garanzia: «Come il sole dà luce al corpo, così la preghiera dà luce all’anima»; pregare è entrare in colloquio con Dio, ed è un’attività degli angeli, anzi, «essa va oltre la loro dignità, perché è meglio della loro dignità intrattenere un colloquio con Dio». Abbiamo bisogno della preghiera non meno che le piante dell’acqua: «Queste, infatti, non possono dare frutto se non bevono dalle radici e noi non possiamo produrre i preziosi frutti della pietà se non siamo irrigati dalle preghiere». Efficace il paragone con i nervi (e/o i tendini): «Come il corpo si regge con i nervi, potendo correre, stare, vivere, essere solido, così le anime sono regolate dalle sante preghiere, ne sono formate e fanno facilmente la corsa della fede». Tutto giusto, tutto bene. Col rischio, però, di attribuire la salvezza (la santità) alla sola ascesi personale. La santità è opera della grazia, che certamente è connessa alla preghiera (anzi, ne è il presupposto). Ma le fonti della grazia sono i sacramenti e nel trattatello manca un riferimento all’Eucaristia. Dà più grazia una Messa con la Comunione ricevuta nelle debite condizioni, che non una provvista di preghiere che peraltro non devono mancare nella vita del cristiano. È bella l’immagine dell’orazione come «tessuto nervoso dell’anima», ma l’anima non può essere ridotta al suo tessuto nervoso.