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E Le cose belle sono già finite

venerdì 12 settembre 2014
​C’è un film-documentario che circola in questi mesi e che mi permetto di segnalare per la quantità di osservazioni importanti che può stimolare, ed è Le cose belle di Ferrente e Piperno. 12
anni fa i due registi intervistarono quattro ragazzini napoletani, a occhio»
tra i 10 e i 13-14 anni: Silvana, Adele, Enzo e Fabio. Il loro ambiente, i
sogni, le famiglie (e non la scuola, che evidentemente contava assai poco nella
loro vita, non per colpa loro). Ma quali erano i loro sogni? Quelli tipici dell’età,
diciamo così, berlusconiana: il calciatore, il cantante, la modella e la
ballerina. Cos’è cambiato, a 12 anni di distanza? Quei ragazzi hanno oggi più
di vent’anni e sono molto malinconici, molto tristi. I sogni erano fasulli, la realtà
li ha resi dei vinti, dei perdenti. L’età adulta è spesso o sempre, rispetto ai
sogni infantili e adolescenziali, una sconfitta: biologica (l’invecchiare), metafisica
(infine, la «conoscenza del bene e del male»), e sociale – perché il mondo si
rivela, oggi in particolare con l’esplodere della crisi (delle crisi),
particolarmente crudele nei confronti dei nuovi nati e dei giovani. La vita di
Silvana Adele Enzo Fabio è di mera sopravvivenza, i sogni non vi hanno corso, è
una vita triste e cupa. C’è un aspetto particolare del quadro che i registi ci
prospettano: il fatto che la famiglia, che pur resiste, e cioè gli adulti, siano
complici e vittime a loro volta della grande beffa dei sogni indotti e
imbecilli. La famiglia resiste ma non aiuta affatto a crescere, e non difende. Questo
riguarda in particolare la società napoletana? In parte sì, perché meno coesa,
più classista, più disastrata economicamente e moralmente di altre. A Napoli si
vive peggio che altrove e le delusioni politiche (da Bassolino a oggi). sono
state più grandi che altrove. È finita perfino la cultura del vicolo, basata
sulla solidarietà interna alle piccole comunità. Le cose belle è uno dei pochi film che mostrano
il vero e rifiutandosi bensì al giudizio, al moralismo della denuncia: non si
tratta di assolvere o condannare queste persone e il loro ambiente, ma di
comprenderne l’amarezza, la non-speranza in un futuro migliore. E reagire di
conseguenza per quello che è possibile fare, che non è molto, nel contesto
economico-politico di questi anni. I due registi non giudicano, constatano,
raccontano, confrontano. Ne deriva un’immensa tristezza, se si pensa al futuro
dei nostri giovani; ed è doveroso, è obbligatorio reagire.