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È il linguaggio dell'amore a nutrire la fratellanza tra i popoli

Alessandro Zaccuri giovedì 3 maggio 2018
Negli ultimi tempi è diventata un'ossessione, ma l'idea di trarre un film da una storia vera appartiene al cinema fin dalle origini. Con i dovuti accorgimenti, però, il primo dei quali dovrebbe essere quello di presentare agli spettatori una vera storia: un racconto, cioè, che vada al di là dell'adesione – effettiva o presunta – allo svolgersi dei fatti e sappia attingere a una dimensione di universalità. Non è un obiettivo facile da raggiungere, questo di una cinematografia mista di storia e d'invenzione, ma quando un regista e i suoi collaboratori colgono nel segno, il risultato è davvero straordinario. La grande illusione di Jean Renoir nasce da una di queste combinazioni, forse la più felice in assoluto. All'inizio c'è il resoconto di una clamorosa evasione di prigionieri francesi da un campo tedesco durante la Prima guerra mondiale, in corso d'opera interviene il lavoro di uno sceneggiatore d'eccezione come lo scrittore Charles Spaak (sì, è il padre dell'attrice Catherine) e infine, durante le riprese, ciascuno degli interpreti si trova a dare il meglio di sé.
Jean Gabin, nei panni del coraggioso Maréchal, rende omaggio alla Francia proletaria, Pierre Fresnay è impeccabile nella stilizzazione del nobile Boieldieu, ma l'interpretazione destinata a rimanere nella memoria è quella di Erich von Stroheim, uno dei più grandi registi dell'epoca del muto, che per l'occasione veste la divisa del barone von Rauffenstein e si presta a indossare il rigido collare ortopedico divenuto emblema del suo personaggio. In teoria, l'ufficiale prussiano sarebbe il comandante della fortezza in cui Boieldieu, Maréchal e gli altri sono segregati, ma in realtà lo stesso von Rauffenstein è prigioniero di una serie di regole che lo obbligano a soffocare un'umanità altrimenti ricchissima per intelligenza e sensibilità.
Film corale per eccellenza, votato com'è a dare conto dell'assurdità della guerra, La grande illusione è costruito attraverso un intrecciarsi di situazioni in apparenza minime. I dialoghi tra i personaggi, anzitutto, giocati su una rete discreta eppure sempre riconoscibile di corrispondenze. Lo scambio di battute fra due operai, in fondo, non è meno solenne delle confidenze tra due aristocratici, anche perché in entrambi i casi la conversazione si svolge in francese, che all'epoca era la lingua ufficiale della diplomazia. Ma sullo sfondo si avverte l'eco di altri idiomi (il tedesco, perfino l'inglese), quasi a suggerire la possibilità di una comune identità europea che, in quel momento, sembra veramente una "grande illusione".
Il film esce nel 1937, dopo un susseguirsi di vicissitudini che, secondo Renoir, potrebbero fornire materia per un'altra pellicola. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, viene premiato con un riconoscimento inventato per l'occasione e che, di fatto, sostituisce la Coppa Mussolini, impossibile da assegnare per via del dichiarato antimilitarismo del racconto. In Germania La grande illusione è esclusa dalle sale e presto lo sarà anche in Francia. In un certo senso, è come se la corazza di von Rauffenstein fosse continuamente messa alla prova, senza mai cedere del tutto. Forse non è lì, dentro la fortezza, che si può compiere il sogno della fratellanza tra i popoli. La missione di Boieldieu – che si sacrifica per permettere la fuga dei suoi uomini – è portata a termine da Maréchal, che trova rifugio in una casa sperduta tra le Alpi, dove lo attende l'amore imprevisto di una donna che parla la stessa lingua dei carcerieri ai quali l'uomo si è appena sottratto. Capirsi, per gli esseri umani, non è mai solo questione di alfabeti e di grammatiche. C'è un linguaggio nascosto che ci accomuna e che di solito, al cinema, si esprime attraverso le immagini.