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Domina: la pubblicità è la poesia del futuro?

Cesare Cavalleri mercoledì 2 aprile 2008
Dal 1970 al 1989 Umberto Domina ha firmato decine di testi radiofonici e televisivi, spesso in coppia con Guido Clericetti, entrambi discepoli del grande Marcello Marchesi. Siamo in molti a ricordare Il buono e il cattivo, con Cochi e Renato, Premiatissima con Johnny Dorelli e Nino Manfredi, Sabato al circo con Beruschi e Boldi. Ma Domina ha scritto anche per Carlo Dapporto, Rita Pavone, Loretta Goggi, Raimondo Vianello, Luciano Rispoli e addirittura per Topo Gigio.
Siciliano di Enna, dove era nato nel 1922, Domina si trasferì giovanissimo a Milano e a Milano visse e lavorò fino alla morte, nel 2006. Uno dei suoi 15 romanzi viene ora riproposto da Sellerio, La moglie che ha sbagliato cugino (pp. 200, euro 10), con una postfazione di Tano Gullo. Pubblicato nel 1965 da Bietti e ristampato da Rizzoli nel 1975 con una presentazione di Enzo Biagi che definiva Domina «un siciliano che scrive come un inglese», il romanzo mantiene una sua stralunata freschezza che si annuncia fin dal titolo. La vena di Domina è di un surrealismo bonario e ipercontrollato, un po' Campanile, un po' Manzoni (non Alessandro, ma Carlo, Carletto, quello del «Signor Veneranda»), e anche un po' Wodehouse, per restare all'inglese, ma senza maggiordomo.
È la storia di due cugini, entrambi di nome Liborio Cappa, ma diversissimi per gusti e temperamento: per distinguersi, l'uno si fa chiamare Orio Cappa, l'altro Liborio K. Orio, perito minerario, sta cercando da sempre «un'occupazione congeniale», e intanto si fa mantenere, con i tre figli Boby Caky e Cuby, dalla famiglia della moglie inglese, Alexy, che mastica poco l'italiano e, nei momenti cruciali, ha «malitesta». Orio è integrato nella Milano del boom economico, ama il neon, i mobili di plastica, i quadri astratti, tutto ciò che è moderno e futuribile. Liborio K, invece, con la cara moglie Enula, per il momento senza figli, ha un modesto impiego pubblico come scrutatore delle schedine del Totocalcio, e sfoga i suoi estri in balordi «dipoenti», cioè in composizioni dipinte fatte di collages ottenuti ritagliando lettere da manifesti, dépliant e altro, per formare "poesie" del tipo: «Arriva/ talmente tardi/ in ufficio/ che rischia/ di uscire/ in ritardo"»; oppure: «Hai visto/ quel film/ di Pasolini/ IL VANGELO/ SECONDO MATTEO?/ - Sì, l'ho veduto/ - T'è piaciuto?/ - Certo" Però"/ Ti dirò/ il libro m'è/ piaciuto di più».
Il colpo di fortuna avviene quando il surreale K. vince il concorso per lo slogan di una nuova bibita, il Lemonfrigo. E lo slogan vittorioso qual è? «Lemonfrigo? Grazie. Prigo». Roba da far regredire un idiota. Ma la forza della pubblicità e del pecorismo è tale che tutti in cominciano a ripetere «Grazie. Prigo» e il successo porta soldi e trionfi in cui si infila il cugino Orio che, d'intesa con K., si fa passare da lui le idee più «creative» subito accolte dalla grande società pubblicitaria in cui si è fatto assumere con scambio di persona. Non stiamo a raccontare tutta la vicenda che ha risvolti gialli e si conclude con un lieto fine che è anche un sussurro alla fedeltà coniugale, ma tanto basti per raccomandare la lettura di questo romanzo.
Umberto Domina, come gli umoristi veri, è un sorridente e profondo moralista che non fa mai del moralismo: la sua satira del consumismo allora agli albori, è antiveggente (profetica sarebbe troppo) e garbata, segnata da una civiltà di cui si avverte, profondamente, la nostalgia.