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DISPREZZO E INVIDIA

Gianfranco Ravasi giovedì 26 giugno 2003
Guardando bene, si scopre che nel disprezzo c'è un po' di invidia segreta. Considerate bene ciò che disprezzate e vi accorgerete che è sempre una felicità che non avete, una libertà che non vi concedete, un coraggio, un'abilità, una forza, dei vantaggi che vi mancano, e della cui mancanza vi consolate col disprezzo. Il poeta francese Paul Valéry (1871-1945) mi aveva affascinato fin da adolescente, quando in un'antologia francese del ginnasio leggevo i suoi versi, imparando quella lingua. Poi ho conosciuto, in questi ultimi anni, i suoi appunti, una marea di fogli che in Italia sta traducendo l'ed. Adelphi. Da quelle pagine disperse lo stesso scrittore aveva raccolto dei volumi di taglio più unitario, come nel caso dei Cattivi pensieri (1943) dai quali ho tratto l'odierna considerazione. È indubbio che spesso si disprezza ciò che non si riesce a conquistare: la famosa favola della volpe e dell'uva acerba ne è la pittoresca illustrazione parabolica. Quante volte siamo stati tentati di liquidare con una battuta maliziosa l'intelligenza o l'opera o la virtù di un altro per il semplice fatto che noi non siamo così intelligenti né esperti né virtuosi. Alla radice del disprezzo aggressivo c'è non di rado un successo frustrato, un'invidia malcelata, un orgoglio ferito. E se proprio non si riesce a trovare una qualche ragione per affermare una propria superiorità, si adotta un estremo scongiuro sul modello di quello che mi aveva raccontato tempo fa un noto vignettista. Egli mi riferiva la frase di un disegnatore inglese, Max Beerbohm, nato a Londra nel 1872 e morto a Rapallo nel 1956, che scrisse anche un romanzo, Zuleika Dobson, pieno di battute. Una di queste diceva: «L'invidia del cretino per l'uomo intelligente trova sempre una consolazione nell'idea che l'uomo brillante farà una brutta fine»!