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differenze

Gianfranco Ravasi sabato 7 febbraio 2004
Sono vissuto abbastanza per vedere che differenza genera odio. Così scriveva Stendhal, il famoso romanziere francese nel suo celebre Il rosso e il nero (1839). La sua è una considerazione amara che può essere riconfermata anche ai nostri giorni in modo più lacerante. Si ha un bel dire che le differenze sono una ricchezza: un mondo monocromo sarebbe, infatti, tristissimo. Più forte è invece, la paura dell'altro, diverso da te per usi e costumi, per cultura e religione. E questa paura si esplica con l'odio e l'odio genera odio in una catena di reciprocità difficilmente controllabile. Intendiamoci bene: l'amore cristiano, a cui spesso e un po' rassegnatamente si rimanda, non significa omogeneizzazione, sincretismo, omologazione. Anzi, la nota metafora del corpo, pur se applicata alla Chiesa, vale anche per la società, come già insegnano i filosofi stoici greci e romani. Un corpo è funzionante proprio perché organismo molteplice e vario, con differenze radicali come quelle che intercorrono tra testa e piedi. Purtroppo non si è capaci di creare un orizzonte in cui, pur con tutte le fatiche delle convivenze, la differenza rimanga, non sia osteggiata ma neppure si opponga a sua volta a ciò che le è diverso.
C'è una battuta nel romanzo Madre e figlio (1955) della scrittrice londinese Ivy Compton-Burnett che mi è rimasta nella memoria: «Non siamo mai tanto diversi dagli altri quanto crediamo o dovremmo». Si notino i due verbi. Da un lato noi «crediamo» di essere tanto diversi dagli altri, ma in realtà c'è una comune umanità che ci fa molto simili. D'altro lato, però, esiste un'identità personale da tutelare in noi e da rispettare negli altri e quindi «dovremmo» essere anche diversi. E' nell'equilibrio tra questi due verbi la pacatezza del vivere sociale.