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Coronavirus. Lo smart working non si sente bene

Alberto Caprotti mercoledì 1 aprile 2020

Parole in libertà, in giorni senza libertà: chiusi per virus, non possiamo fare. Ma possiamo continuare a pensare…

Giorno 21

Dicono che sia il futuro, che non ne potremo più fare a meno, che è un segno di modernità e di progresso: sarà, ma io dopo due ore di smart working assomigliavo già a Silvio Pellico. Liberi di pensarla diversamente, ci mancherebbe, ma la libertà (vigilata) è una prigione. Hai le chiavi della porta, ma se devi disinfettarti le mani per aprirla, ti passa la voglia. Lo so bene, sono un privilegiato: mi vergogno a pensarlo ora e qui, al caldo davanti al computer, mentre c’è gente che l’occupazione l’ha già persa, o comunque pagherebbe qualunque cifra solo per poter tornare a casa propria. Allora non mi lamento, ma semplicemente osservo: lavorare a casa, è una contraddizione in termini.

Che qualcosa non funzioni, lo dice già la traduzione: vorrei sapere cosa c’è di smart, cioè di agile, nel lavorare da casa. Non fa dimagrire, non rinforza i muscoli, non è affatto più facile, almeno mi pare: per esserne certo avrei bisogno di concentrarmi, ma ho paura che mi si brucino le uova sui fornelli mentre sento mia figlia dire in collegamento con la sua prof ad alta voce che non si sente niente. Perché mentre stai a casa la vita fa rumore, per fortuna, e lo vuoi ascoltare. In ufficio il rumore invece è sottofondo noioso e trascurabile, sei abituato, non lo senti.

Ero depresso prima ancora di cominciare, sono perplesso ora, non mi abituerò comunque. Mi mancano le pause rubate, rimpiango il distributore del caffè con i colleghi, dove il caffè è cattivo ma le parole con loro sono buone. Buone per pensare, per confrontarsi, per raccontarsi la vita che è sempre il lavoro più difficile. Senza quelle parole e quelle facce, ti asciughi, e se devi costruire qualcosa non viene altrettanto bene. E poi mi mancano i minuti passati sui social fingendo di essere concentratissimo su un’inchiesta epocale: dal computer di casa funzionano uguale i social, però non sono più minuti ma ore, giorni, notti, e così viene la nausea. E’ vero, posso farle anche a casa le pause mentre lavoro, ma non sono rubate, non c’è gusto. E il caffè cattivo, se lo faccio io purtroppo non mi riesce.

Per questo mi ribello mentalmente, e cercherò di non arrendermi fino all’ultimo, o almeno a non rassegnarmi all’idea che sarà così anche in futuro. Le risposte che cerco di certo non le troverò in una conference call o collegandomi da remoto. Che poi, quasi sempre, non si sente niente.