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Dal Sahel lezioni di vita e di morte

Mauro Armanino martedì 27 ottobre 2020
Nell'Occidente una volta supposto "cristiano" abbiamo censurato la morte. Arriva come un impiccio, un accidente di percorso, una colpevolezza non contemplata dal programma, un errore di calcolo. E allora si muore di nascosto e né le campane né le veglie funebri nelle case trovano lo spazio di un tempo, quando la morte era un fatto sociale, come la vita. Si muore all'ospedale, spesso nell'isolamento e l'obitorio degli ospedali di oggi è quasi invisibile, come uno sgorbio operato su strutture architettoniche di ultima generazione. Si muore come si è vissuto, clandestinamente e in sintonia con le ideologie dominanti, basate sul consumo e sull'effimero della pubblicità. La morte torna a farsi viva sugli schermi tv o delle reti sociali quando è spettacolo. Guerre, assalti, attentati o bollettini medici nei quali diventa
pura statistica per decidere le prossime misure di contenimento dei contagi legati alle epidemie che assediano la civiltà. I cortei funebri, la precarietà della vita e i cimiteri con i loro simboli, cercavano comunque di dare senso all'ultimo tratto e transito della vita. Unico, personale e decisivo, nel quale la solitudine della propria morte, inevitabile, mette a nudo la fragilità che era rimasta nascosta, come in agguato, durante tutta la vita. In fondo la morte è il gra momento di verità della vita.
Nel Niger la malaria, ossia il paludismo, quest'anno e sino al 7 ottoibre, ha ucciso, secondo statistiche probabilmente politicamente lontane dalla realtà, circa 2.500 persone. Un aumento del 30% rispetto all'anno scorso quando le vittime furono 1.930. Questo significa che questa malattia ha mietuto vite 35 volte di più della commentatissima Covid-19. Ma morire di meningite, malaria, diarrea, parto e fame è molto meno importante che morire di coronavirus, che tocca soprattutto agli occidentali. Qui da noi la vita e morte nascono assieme. E noi sappiamo della naturale fragilità della vita: sabbia e soffio e vento e viaggio nella quotidiana provvisorietà dell'essere nel mondo. Tutto qui, in genere, prepara all'ultimo momento che può accadere l'improvviso. Una visita, una malattia banale, un ritorno insperato, la corrente elettrica che sparisce, il taxi che non arriva e un appuntamento dimenticato. La vita è fragile precaria, sfuggevole, distratta, affacendata dalla ricerca di cibo, salute e lavoro a giornata. Ma da noi si sa ancora morire senza vergogna.
C'è stato il coprifuoco, il divieto delle preghiere in comune, l'obbligo delle maschere al coperto e all'aperto, il blocco delle frontiere aeree e terrestri, corsi di perfezionamento nella gestione dell'epidemia, fondi per aiutare l'economia e proposte per annullare il debito. Nulla di tutto questo è stato seriamente seguito per più di qualche giorno, per mancanza di fede nella malattia, per noncuranza, impreparazione e soprattutto perché – come la gente ha cominciato subito a dire – non abbiamo mai visto il famoso Covid passeggiare per le strade. E questo è talmente vero che la
pandemia, vistasi messa in disparte e delusa da questa mancanza di considerazione, ha pensato di ritirasi in buon ordine malgrado gli appelli a restare per avere altri fondi Covid da gestire. In cambio, però, ad accapparare le prime pagine dei giornali che nessuno legge ci sono state inondazioni, attacchi terroristi, carestie. E le prossime elezioni presidenziali. Ciò che si evince da tutto ciò è che nel Sahel sappiamo morire con dignità perché non abbiamo paura di vivere la vita come gratuita e inestimabile occasione per camminare assieme. La perdita dei legami sociali è il vero dramma dell'Occidente e della parte del mondo che cerca di imitarlo nella sua perdizione. Solo questo fattore rende inesplicabili sia la vita sia la morte. Vivere significa con-vivere e solo perché siamo assieme possiamo attraversare la vita traghettando la morte come un passeggero tra gli altri. Insegnava Paulo Freire che nessuno libera nessuno, ci si libera assieme e in comunione.
Niamey, 25 ottobre 2020