Da Spadolini a Cicerone: l'arte di governo si impara in biblioteca
Nel scendere dalla collina in mezzo ai cipressi, alle ville silenziose dipinte dai fiori dell'autunno, pensavo a quando ancora bambina accompagnavo mio padre alle bancarelle di piazza in Lucina, dove si vendevano vecchie edizioni, ed egli, impiegato alla Biblioteca Vaticana, doveva fare i conti con il desiderio di acquistare qualche libro e le poche lire del suo portafoglio. Passava da un rivenditore all'altro, alzando gli occhiali sulla fronte per leggere meglio e infine acquistava un volume dopo averlo sfogliato lentamente, come si accarezza qualcuno che si ama, e io che non conoscevo il valore del tempo, credevo commettesse un grave errore nello scegliere sempre quelli con la copertina un po' sgualcita. Ora riempiono le pareti delle mie stanze e mi tengono compagnia. Non sono molti, ma frutto di sacrifici, di rinunce, di scelte di vita, di dirittura morale, di tutto ciò che è descritto nella pubblicazione sostenuta dalla Fondazione De Gasperi e che oggi viene presentata in tre volumi, nella splendente sala dei Cinquecento a Palazzo Vecchio. Qualcuno ha anche ricordato quanto egli avesse amato lavorare in mezzo agli antichi palinsesti della Biblioteca Vaticana, tra i quali ebbe a descrivere in un discorso il De Republica di Cicerone con queste parole: «Mi ricordo con quale venerazione e rispetto l'aprivo perché sentivo che qui era l'unica politica che avrei potuto imparare... di lunga e storica prospettiva... Egli diceva che non vi è altra cosa in cui la virtù umana si appressi più alla divinità che il fondare nuovi Stati, nuove città, o reggere gli antichi. Voleva significare che non c'è altro compito più grave e di maggiore responsabilità che quello di occuparsi in posti direttivi della politica degli Stati».