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Corruzione: ma dovevamo proprio farci "bacchettare" dal Consiglio d'Europa?

Renato Balduzzi giovedì 2 febbraio 2017
Quindici giorni fa è stato reso pubblico il Rapporto che il "Gruppo di Stati contro la corruzione", organismo attivo all'interno del Consiglio d'Europa (raggruppa attualmente 47 Stati membri: acronimo: Greco), ha dedicato all'Italia sul tema della prevenzione della corruzione di parlamentari, giudici e pubblici ministeri. Trattasi del quarto Rapporto da quando, nel 2007, il nostro Paese ha aderito al Gruppo.
I commenti si sono concentrati per lo più sulla parte concernente i magistrati e, in particolare, sulle "raccomandazioni" in tema di partecipazione diretta dei magistrati alla vita politica. Muovendo dalla constatazione che la legislazione italiana «presenta sul punto numerose lacune e contraddizioni, che sollevano dubbi dal punto di vista della separazione dei poteri e che riguardano la necessaria indipendenza e imparzialità dei magistrati», si raccomanda (condividendo sollecitazioni in tal senso provenienti anche dal Consiglio superiore della magistratura) che la legge introduca, in funzione preventiva rispetto a possibili fenomeni corruttivi, limiti più stringenti alla partecipazione dei magistrati alla politica. Parole forti, e del tutto convincenti. Altrettanto convincenti, ancorché meno riprese nei commenti di casa nostra, sono altre parti del Rapporto. Ad esempio, quando esso segnala la necessità di rivedere la disciplina dei tempi di prescrizione dei reati, per il crescente impatto negativo sui casi di corruzione, e «deplora» che tale riforma non sia stata ancora attuata. O quando «condivide decisamente» la necessità di rafforzare i poteri del Csm nei procedimenti di incompatibilità ambientale e funzionale. O quando ricostruisce con precisione il nostro modello di magistratura onoraria, dimostrando che non è impossibile farlo comprendere in sede "europea"; quando esprime giudizio positivo sul nostro sistema di reclutamento, valutazione e promozione; quando ricorda i notevoli carichi di lavoro medi dei magistrati italiani, a fronte di risorse logistiche e finanziarie limitate; infine, quando chiede a Csm e Scuola della magistratura un impegno maggiore nella formazione sul Codice deontologico.
Verrebbe da chiedersi come sia stato possibile che un modello innovativo ed equilibrato di magistrato e di magistratura, quale quello accolto nella nostra Costituzione, abbia conosciuto un'attuazione tale da meritarsi le "bacchettate" del Consiglio d'Europa. Forse, la risposta è nelle considerazioni conclusive del Rapporto: la lotta contro la corruzione è una questione di cultura, e non solo di norme, e dunque servono un approccio a lungo termine, un'educazione continua in tutti i settori della società, oltre che una tolleranza zero nei confronti dei comportamenti corruttivi.