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Consulta: meglio la trasparenza o il segreto della camera di consiglio?

Renato Balduzzi giovedì 26 gennaio 2017
Nell'epoca dei big data, della società digitale e della sempre più sfumata distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, non stupisce che una delle parole d'ordine del dibattito culturale e politico sia "trasparenza": tutto ciò che le si oppone rischia di apparire almeno retrogrado, se non sospetto. Ma davvero tutto deve essere "pubblico" e la trasparenza, intesa come assenza di segretezza e come necessario disvelamento di dati, comportamenti ed opinioni, non deve avere confini? Sinché si tratta di rendere noti retribuzioni, dichiarazioni dei redditi, voti dati negli organi rappresentativi da parte di persone cui sono affidate funzioni pubbliche, la risposta è relativamente facile: la trasparenza è uno degli strumenti, irrinunciabile, che permettono a tali persone di concretamente adempiere al dovere costituzionale di svolgere quelle funzioni con disciplina e onore (art. 54). Se invece pensiamo a un giudice collegiale, ha senso spingere l'esigenza di trasparenza sino ad auspicare il superamento del cosidetto segreto della camera di consiglio, considerato tradizionalmente da noi una garanzia dell'indipendenza del giudice stesso (che si estrinseca nell'impersonalità e imputabilità al collegio della decisione)? Sono di questi giorni le decisioni della Corte costituzionale sull'ammissibilità del referendum sul lavoro e, proprio ieri, sull'Italicum, e le relative ricostruzioni giornalistiche delle posizioni e dei voti dei singoli componenti, cui si sono accompagnate proposte volte a introdurre nel nostro ordinamento, per questo giudice, qualche forma di "opinione dissenziente". La discussione sui pregi e sui difetti di tale istituto è antica, anche in Italia. I fautori ne sottolineano, tra l'altro, l'utilità per la discussione pubblica, l'attitudine a svelare la strutturale pluralità dell'interpretazione giuridica e la circostanza che un'opinione minoritaria oggi può essere quella maggioritaria domani. I critici mettono in rilievo che esso può indebolire l'autorità morale del giudice e delle sue sentenze, oltre che disincentivare la ricerca di punti di contatto e di mediazione tra i diversi giudici.
Nel nostro Paese vi sono serie ragioni per pensare che la sua introduzione rischierebbe di determinare non un arricchimento del dibattito, ma l'appiattimento della valutazione delle decisioni della Corte su logiche di schieramento politico-partitico, insieme a ulteriori difficoltà per l'opinione pubblica a comprendere la logica e i caratteri della giustizia costituzionale. In ogni caso, una discussione seria, piuttosto che la semplificata contrapposizione fra trasparenza e opacità, dovrebbe concernere la funzione stessa del diritto e del giudice costituzionale.