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Confinamenti e tre giocattoli nel Sahel

Mauro Armanino martedì 16 marzo 2021
Li ha posti con un gesto naturale sulla tomba di terra di Aliya morta a due mesi. Un pesciolino, una trombetta e un uccellino. Questi i giochi da bambini che Johnson, lui stesso malato, ha deposto sulla terra ancora fresca di sepoltura. Un gesto di sconfinata tenerezza perché Aliya, ovunque essa si trovi in questo momento, possa imparare a giocare ciò che, nella sua troppo breve esistenza, non ha potuto fare prima. Accanto ai giochetti colorati di plastica, una croce di ferro piantata nella terra, sconfinata come tutte le croci dei cimiteri e della storia umana. Saranno per sempre assieme, i giochetti e la croce, nel leggero strato di cemento buttato sulla terra come un secondo grembo in attesa di germoglio. I fiori e i rami piantati accanto al momento della sepoltura già erano secchi di vento che soffia in questi giorni su Niamey, la capitale. Altrettanto sconfinata appare l'avventura di Patrick, originario dalla Repubblica Democratica del Congo, che ha abbandonato nel 2005 per andare altrove a cercare la sua vita smarrita in patria. Qualcosa come quindici anni in Algeria, prima studiando poi lavorando e cercando infine di attraversare il mare per raggiungere l'Europa di tutti i sogni. Arrestato, espulso e deportato si trova adesso nella capitale, ospite dell'Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, da tre mesi in attesa di rimpatrio. Non rimpiange il vissuto e afferma la ferma volontà di "ricostruirsi" dopo tutto questo tempo. I tentativi falliti di viaggio in Occidente e il "razzismo" di vari algerini che gli hanno portato via tutto. "Con nulla sei arrivato e con nulla devi partire", questa la logica che giustifica la confisca dei beni che migranti e rifugiati hanno messo da parte in anni di duro e spesso sfruttato lavoro nel Paese. Ingiustizie sconfinate che gridano nel deserto dell'indifferenza di politici e società civile.
Chi la fa l'aspetti, verrebbe voglia di dire, con la saggezza di un tempo. Abbiamo giocato a confinare popoli, migranti, desideri di trasformazione, aneliti di giustizia e fragili tentativi di riappropriazione di dignità. Abbiamo moltiplicato muri, cancelli, sistemi di controllo, radar, tracciamenti di esseri umani "clandestini", reclusioni dietro reticolati di cartone, inventato biometrie e armi ogni volta più numeriche. Abbiamo, per decenni, scavato fosse, tracciato trincée, creato abissi, progettato voragini, disegnato mari e deserti come recinzioni per fintamente proteggerci e adesso tocca a noi. Confinati fisicamente, mentalmente, socialmente, economicamente e soprattutto umanamente da scelte politiche al soldo di interessi ideologici e monetari. Doveva capitarci perché potessimo provare ciò che nel frattempo avevamo dimenticato. Che, in questa vita e forse pure nell'altra, siamo tutti migranti e che la vita stessa è migrazione e che il mondo e la terra sono di tutti e in particolare dei poveri. Fa sorridere che qui, in mancanza di meglio, come riporta un giornale locale, ad essere confinate sono... le galline. Il giornale in questione cita il Punto focale dell'Organizzazione Mondiale della Salute Animale che rileva l'esistenza di due focolai di influenza aviaria a Niamey. I gesti barriera sono stati subito introdotti, riporta il giornale, assieme ad una stretta quarantena dei malcapitati animali e l'isolamento degli stessi da ogni contatto esterno. Il settimanale conclude con una nota di solidarietà nei confronti del pollame in questione e desidera ricordare agli animali che dovrebbero sentirsi privilegiati perché, nel 2006, erano state freddamente abbattuti almeno 17mila volatili. Johnson, senza chiedere a nessuno, ha delicatamente deposto sulla terra della tomba di Aliya tre giochetti come regalo. Una trombetta multicolore per suonare, un pesciolino rosso per un mare che ancora non c'è e un uccellino giallo polvere di vento, per volare lontano.
Niamey, marzo 2021