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Ciò che dice la Croce

Anna Foa mercoledì 18 settembre 2013
Quando Alfred Dreyfus fu, nel 1894, condannato innocente alla deportazione nell'Isola del Diavolo, suo fratello Mathieu gli scrisse impegnandosi ad operare con tutte le sue energie per dimostrare la sua innocenza e chiedendogli in cambio di rinunciare al suicidio. Nella lettera, Mathieu si riferiva alla sua condanna come a un «calvario». La parola che definiva l'uccisione di Cristo era da tanto tempo diventata una metafora dell'ingiusto supplizio di un innocente da poter essere usata tranquillamente anche da chi, come Mathieu e Alfred Dreyfus, erano totalmente e intimamente ebrei. In La Notte di Elie Wiesel, di fronte ad un bambino impiccato ad Auschwitz qualcuno si chiede dove sia Dio e un altro risponde. «È appeso su questa forca». Non è anche questo un richiamo pregnante al sacrificio di Cristo? Le metafore desunte dal cristianesimo hanno a un certo punto della storia smesso di essere estranee al mondo ebraico, forse da quando i due mondi hanno cominciato ad essere meno separati, dopo l'emancipazione. È stato allora che, del resto, i pittori ebrei, come il grande Chagall, hanno cominciato a dipingere soggetti cristiani, in particolare la Crocefissione, interpretata in senso metaforico come un simbolo di valore universale.