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Cinema e letteratura mai antagonisti nelle visioni di Truffaut

Alessandro Zaccuri giovedì 4 gennaio 2018
Passano gli anni, cambiano le stagioni, ma c'è sempre qualcuno che prova a contrapporre il cinema a qualcos'altro. Alla letteratura, per esempio, che è stata la prima e continua a essere la più longeva tra le figure che appaiono in questa galleria di antagonisti immaginari. Come se il cinema non fosse, al contrario, la forma d'arte più versatile e accogliente, "impura" nell'accezione stabilita fin dagli anni Cinquanta da André Bazin, il grande critico francese al quale più di una generazione di spettatori e cineasti ha guardato con ammirazione e riconoscenza. Per Bazin il cinema è "impuro" perché non si accontenta di sé stesso, ma trova spunti e conferme dappertutto, dalle arti figurative alla letteratura, appunto, attingendo a quest'ultima mediante l'adattamento, pratica la cui originalità scaturisce – per paradosso – dalla rielaborazione di un'opera preesistente.
Bazin morì, appena quarantenne, l'11 novembre del 1958. Quello stesso giorno il suo allievo prediletto, François Truffaut, cominciava le riprese del suo lungometraggio d'esordio, I quattrocento colpi. Espressione che in italiano non significa granché, visto che si tratta del calco letterale di Les Quatre Cents Coups, corrispettivo francese del nostro "fare il diavolo a quattro". È questa, infatti, la specialità di Antoine Doinel, il giovanissimo protagonista del film: un monello parigino che potrebbe essere la versione moderna del Gavroche dei Miserabili, se la sua epopea non risultasse priva anche di quel tanto di eroismo concesso da Victor Hugo al proprio personaggio. Ma non bisogna affrettare il giudizio, e non solo perché quello dei Quattrocento colpi è uno dei più celebri fra i tanti "finali sospesi" nella storia del cinema. Quando arriva l'ultima scena sappiamo già abbastanza di Antoine, delle sue intemperanze da dodicenne trascurato e della sua sgangherata famiglia (ha un padre che è suo padre solo all'anagrafe e una madre che quasi mai si ricorda di essere madre), ma non abbiamo idea di come possa finire la sua storia. Truffaut ce lo mostra al termine dell'ennesima fuga, solo come di fatto è sempre stato, mentre corre su una spiaggia che, tanto per cambiare, ha raggiunto trascinato dal caso. Il mare sarebbe lì, davanti a lui, ma il ragazzino ha deciso di voltargli le spalle per guardare verso di noi. "In macchina", come si dice in gergo. Antoine non dice niente, eppure ci sembra di capire che cosa sta pensando: ce n'est qu'un debut.
"Questo è solo l'inizio" è la parola d'ordine di ogni poeta e di ogni rivoluzionario. Truffaut fu l'uno e l'altro: sincero fino alla spietatezza nella rievocazione della propria infanzia (dopo aver visto I quattrocento colpi, la famiglia interruppe i rapporti con lui) e generosissimo nell'immaginare nuove strade, nuove esistenze. Jean-Pierre Léaud, il piccolo protagonista del film, è destinato a diventare l'alter ego del regista. Un titolo dopo l'altro, interpreterà Antoine Doinel in diverse età della vita, passando con lui dagli entusiasmi della gioventù alle disillusioni della maturità. Primo capitolo di questa saga personalissima e imprevedibile, I quattrocento colpi è il film che contiene già tutto il cinema di Truffaut, compreso l'altro suo capolavoro, Effetto notte (1973), nel quale tornano i temi dell'assenza del padre, del tradimento, della potenza salvifica del racconto. Nel film del 1959 nessuno prova veramente a educare il ribelle Antoine, che però ha la fortuna di amare con pari trasporto il cinema e la letteratura. Riconosce qualcosa di sé ovunque la trovi e, quando gli succede, se ne impossessa senza scrupoli, magari mandando a memoria una pagina di Balzac, questo scrittore vorace e vitale, "impuro" come il cinema.