Rubriche

Ci penso io

Alberto Caprotti giovedì 13 agosto 2020
In inglese bastano cinque lettere in tutto: si scrive "I care". La traduzione letterale richiede invece un giro di parole: dal "me ne faccio carico" a "mi preoccupo", a "ci penso io". Manca, nella versione italiana, il senso della partecipazione, che è la vera ragione del valore morale e politico di questa espressione. "I care" era lo slogan scritto nell'ufficio del reverendo King, pastore della piccola chiesa di Atlanta da cui è partito il movimento per i diritti civili. Da noi "I care" richiama invece la voce nobile di don Milani, della sua scuola, del suo rapporto con i più giovani e i più poveri. È sempre stata una bandiera di minoranza, ma anche di differenza. Perché indica un territorio che è al di fuori dello scambio e della convenienza. A questo penso leggendo che oltre 150 volontari della Comunità di Sant'Egidio passeranno a turno una "vacanza alternativa" aiutando i profughi a Lesbo. Oppure che 48 "volontari della spesa" stanno occupando le loro ferie d'agosto per lavorare agli Empori della Caritas Ambrosiana. Esattamente il contrario di quelli come me che a forza di preoccuparsi senza occuparsi hanno perso mille buone occasioni, tranne una: quella di provare tanta ammirazione e un pizzico di sana invidia per la loro forza coraggiosa.