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Cercando risposte sui giovani suicidi

Goffredo Fofi venerdì 17 gennaio 2020
Nonostante la convinzione che ognuno debba tener fronte alle difficoltà della vita, talora oggettivamente terribili ma spesso solo soggettive e soprattutto per chi meno partecipa di speranze e tensioni collettive, per chi ragiona solo "a partire da sé"; e nonostante l'assoluto rispetto per chi non ce la fa più, per chi decide di togliersi la vita, io sto dalla parte di coloro che credono occorra resistere alla tentazione del suicidio. E mi avviene di ricordare uno scambio di battute, a Torino, con un maestro come Norberto Bobbio, quando a togliersi la vita fu Primo Levi che lui, come tutti, ammirava. Egli ne fu sconvolto, ma reagì in un modo che a me parve troppo duro, quasi arrabbiato contro Levi e il suo gesto. Mi disse, in sostanza: «Bisogna resistere sino in fondo, non ci si ammazza, non ci si deve ammazzare, bisogna lottare fino all'ultimo». Era la reazione di un uomo della stessa generazione di Levi, anche se meno provato di lui dalla Storia. Non voglio però entrare in riflessioni morali e filosofiche sul suicidio, non sono all'altezza. Voglio bensì pormi domande più banali e concrete a partire da un vecchio appunto che ho ritrovato per caso in un vecchio taccuino. Vi riportavo i dati, citati mi pare da "Le monde" ma apparsi sul "Journal of the American Medical Association" sul numero di suicidi avvenuti negli Usa nel 2017, ma solo quelli che mi avevano più colpito, che riguardavano i giovani tra i 15 e i 24 anni. Nel corso di quell'anno ce ne erano stati 6.241, ma di essi solo 1.225 avevano riguardato ragazze, mentre 5.016 erano stati quelli dei maschi. Una sproporzione impressionante: una ragazza contro cinque ragazzi. Come mai? Perché? Solo degli attenti analisti della società americana potrebbero spiegarcelo, ma bisognerebbe anche studiare i dati che riguardano l'Europa o, per esempio, l'Italia per operare dei confronti, e vedere se questa percentuale vale anche per il nostro Paese (dove i giovani sono sempre meno numerosi...) o, mettiamo, per un Paese asiatico, africano, latino-americano più povero del nostro e, ovviamente, più povero degli Usa. È un lavoro da fare, e varrebbe la pena. Ma intanto: c'è qualche motivo non storico-sociale per questa disparità? Vale sempre, che le femmine siano più attaccate alla vita dei maschi? Qui potrebbero entrare in campo gli psicologi, ma anche i filosofi, anche i teologi e, accessoriamente ma non troppo, gli economisti. Le donne sono più attaccate alla vita perché sono la vita? Perché danno la vita? Negli Usa di oggi i giovani maschi soffrono maggiormente delle contraddizioni pesanti di quella società? Le giovani donne (pensando anche ai movimenti femministi e ai loro successi) sono più attive, più sveglie, più "importanti", più motivate e più interessate al futuro dei giovani maschi? Le domande sono tante, ma grande è anche lo sconcerto - molto sconcerto, più che curiosità - che i dati di cui sopra possono suscitare in ciascuno di noi, oggi, ma pensando anche a sempre.