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Borges tra memoria e oblio: il più lampante testimone della senilità dell'Occidente

Alfonso Berardinelli sabato 26 ottobre 2013
Ah Borges, l'eterno Borges! Conforta anche quando sconforta. Ripete al lettore e ripete a se stesso che il mondo manifesto è così plurimo da essere inafferrabile e che l'infinito innumerevole coincide con l'uno inesteso del punto geometrico. Compaiono da Adelphi le sue poesie uscite nel 1975, La rosa profonda: geometriche e ossessive, pendolarmente votate alla nostalgia che fa rivivere il passato e alla malinconia che incenerisce il presente. Ma il passato è solo memoria e la memoria, come l'io che la ospita, è mutevole e insostanziale. Con tutta la sua labirintica complessità, l'opera di Borges non poteva che avere successo e creare schiere di devoti, una specie di letteraria religio. Ma questo è possibile solo quando stile e metafisica creano una sola scacchiera, dove passione e distacco, contemplazione e violenza giocano un unico interminabile gioco. Come nei Quartetti di Eliot, anche in Borges il tempo in successione è in verità illusorio, passato, presente e futuro coesistono in un eterno inafferrabile presente, sempre se stesso e sempre diverso. Antistorica e antistoricistica, la letteratura di Borges è speculativa, interpretante, mentale. Eppure nega che la mente possa arrivare a costruire una conoscenza certa e ad afferrare presenze reali. L'intellettualismo di Borges è melanconico poiché immancabilmente conclude con lo scacco e l'impotenza: un laborioso, circolare itinerario mistico privo di meta, un'avventurosa navigazione senza approdi. Meditabondo e fantasticante bibliotecario, Borges è forse il più lampante testimone della senilità culturale dell'Occidente. Come e diversamente da Beckett, guarda la storia precipitare nell'insensato e nell'oblio. Nota Tommaso Scarano, curatore del libro, che la lirica tarda di Borges, ha due caratteristiche: formalmente è più tradizionalista, fa spesso uso di schemi metrici classici, soprattutto endecasillabi organizzati in sonetti di tipo elisabettiano (tre quartine più un distico a rima baciata) mentre tematicamente è più autobiografico e intimista. Più evidenti mi sembra, sono gli echi di Góngora e Quevedo. Ancora una volta, Borges ci parla di oblio, ma ricorda tutto.