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Biella inventa un “catasto solidale” per mettere a frutto le terre abbandonate

Paolo Massobrio mercoledì 7 marzo 2018
Il progetto è ancora piccolo piccolo, ma può certamente allargarsi a macchia d'olio. Si chiama Let Eat Bi ed è stato concepito a Biella, nella città dell'arte della Fondazione Pistoletto ambientata in un ex lanificio.
Non è farina del sacco di qualche amministratore locale, né di un bando o di un indirizzo. Il flatus voci lo ha dato semplicemente la bellezza, evocata dall'artista Michelangelo Pistoletto, che nel mezzo del suo percorso ha creato una vera e propria cittadella dove si impara e si sperimenta. La figlia Armona dirige la Fondazione, che accoglie diversi giovani, ma che è diventata anche un punto di riferimento sul territorio.
E mentre mi raccontava il progetto, col padre di fianco, rimanevo sorpreso dal fatto che la terra può diventare il punto di partenza di ogni suggestione, anche artistica. E fors'anche politica. La terra, le sue stagioni, la capacità di ricreare, diventano allora un racconto intimo che Pistoletto ha poi sintetizzato in una sua opera, il Terzo Paradiso. Ovvero là dove natura e società si incontrano. Ma in realtà cosa hanno fatto di così interessante? Intanto sono partiti dal "bene comune", che è una parola quanto mai preziosa proprio in questi giorni, dove il rischio è di perderne l'oggettività o di interpretarlo a piacimento di questo o di quello schieramento.
A Biella il bene lo hanno identificato con la terra, partendo dai terreni in disuso o dimenticati. Piccoli appezzamenti, magari frutto di eredità antiche, che sono finiti nella creazione del "catasto solidale", messi a disposizione dai proprietari perché qualcuno li faccia fruttare per un progetto sociale, che significa anche occupazione. L'offerta ha dunque generato la domanda: orticoltori per passione oppure coltivatori alle prime armi. Il frutto delle loro produzioni ha poi avuto nella città dell'arte un punto di allungamento della filiera attraverso momenti di incontro, mercatini, ma anche progetti di trasformazione, fino al baratto. E ancora, momenti di formazione e di scambio di esperienze fra i soggetti stessi, producendo attraverso un'occasione di lavoro anche uno strumento educativo per lo sviluppo sostenibile, quindi di nuovi stili di vita e di buone pratiche per la cura e il miglioramento dell'ambiente.
Così facendo sono nate relazioni e si è sviluppata quella parte spesso nascosta nella filiera che è la convivialità, che è l'anima stessa del progetto. Leggendo il programma delle attività, che significa passare sabati e domeniche in cascine a scoprire come la terra rigenera economia e convivialità, mi si è accesa una lampadina: ma questo metodo non potrebbe essere mutuato anche dalla politica? Cosa lo impedisce? Forse l'incapacità di dare un nome all'espressione bene comune?