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Bellezza controversa dell'Altare della Patria

Cesare Cavalleri mercoledì 22 giugno 2011
Non ho mai avuto esitazioni: per me il Vittoriano, l'Altare della Patria, è bellissimo. È il monumento più discusso e controverso d'Italia, e forse d'Europa, ma a me è sempre piaciuto per la sua dismisura, per l'incongrua bianchezza, per il meticciato estetico che l'ha generato. E poi, in quest'anno del suo centenario, è ormai consegnato alla storia, e la controversa nostra storia italiana non può essere meglio espressa che da un monumento controverso. Il 27 gennaio 1986, a Palazzo Venezia, si tenne addirittura un "Processo al Vittoriano", con Bruno Zevi e Giovanni Klaus Koenig in veste d'accusatori, e Paolo Portoghesi e Claudio Conforti per la difesa. Il "Processo" finì con l'assoluzione, tanto più che l'architetto Koenig, in corso d'opera, passò dall'accusa alla difesa, anche se addivenendo a conclusioni balordissime, quali l'ipotesi di trasferire altrove il Milite Ignoto, e ricoprire il monumento con giardini, caffè e soste di intrattenimento, a beneficio dei turisti. E con la bandiera della Juventus (qui concordo) a sventolare sul pennone più alto. Si può rileggere il resoconto del "Processo" che Koenig pubblicò nel giugno 1986 sulla rivista «Ottagono» in un simpatico libretto pubblicato da Medusa proprio con il titolo Processo all'Altare della Patria (pp. 96, euro 10). Vittorio Gregotti, nell'equilibrata Introduzione, ammette che nel caso della distruzione (accidentale o voluta) del monumento, arduo sarebbe «assicurarne positivamente una nuova adeguata proposta», per cui non ci resta che tenerlo così com'è. Nel succoso testo di Giovanni Klaus Koenig (delirante e forse ironica conclusione a parte) c'è la storia del monumento e c'è anche la giusta valorizzazione degli spazi interni del Vittoriano, che l'architetto Portoghesi ha paragonato alle Carceri piranesiane. Il pezzo forte, però, è la ristampa del testo che Carlo Dossi pubblicò nel 1883 con il titolo «I mattoidi al primo concorso per monumento in Roma a Vittorio Emanuele II». È un'esilarante rassegna dei più scriteriati progetti presentati da oscuri personaggi dei più svariati mestieri, digiuni di competenze architettoniche, ignari delle leggi della statica, in un bric à brac di reminiscenze in cui la Colonna Traiana si sposa al Colosseo, Castel Sant'Angelo si contamina con il Partenone. Ma si tratta, appunto, di progetti scartati e quindi sia reso onore alla Commissione che, in seconda battuta, scelse il progetto del conte Sacconi per il colosso che tuttora biancheggia.
Non nascondo il mio entusiasmo per il libro di Bruno Tobia, L'Altare della Patria, pubblicato dal Mulino (pp. 144, euro 10). È il romanzo del Vittoriano, perché l'autore è riuscito a tracciarne la storia nei vari passaggi, da monumento a Vittorio Emanuele II ad Altare della Patria, a sacrario del Milite Ignoto, con rigore non pedante di documentazione e in avvincente stile narrativo. Neppure Tobia nasconde le riserve sulla mole del Vittoriano, soprattutto al confronto con il Colosseo o con San Pietro: «Il senso di novità da cui si è presi contemplando il Vittoriano coincide con un sentimento di estraneazione e di ripulsa; significa che questa prospettiva, questo fondale di marmo, è un palcoscenico sul quale la recita patriottica si svolge raggelata e lontana, estranea». Eppure proprio la glorificazione del Milite Ignoto conferisce al monumento una sacralità sincera e perdurante, come l'autore stesso testimonia nella Postfazione in cui racconta le ore trascorse nella disciplinata fila per rendere omaggio alle vittime di Nassiria. Smettiamo di autodenigrarci, rendiamo omaggio ai soldati che, in tutte le guerre, hanno speso la loro vita per cause anche sbagliate ma pagate col sangue, per un'idea di Patria che mantiene il suo senso. Davvero un bellissimo libro, che meritava qualcosa di più delle tre righe di avallo di Corrado Augias, in quarta di copertina.