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Assolutamente sì, il doping dei pavidi

Umberto Folena domenica 28 aprile 2019
«Vuoi tu Marchino prendere in moglie la qui presente Luigina?». «Assolutamente sì!», esclamò Marchino, un giovane sposo ossequioso nei confronti delle tendenze linguistiche e culturali, forse desideroso di lanciare un messaggio inequivocabile alla suocera tignosa seduta al banco in prima fila. Perbacco, tutti dicono "assolutamente sì" e "assolutamente no" anche in circostanze tutt'altro che assolute, anzi solubili assai, incerte e cangianti. Qui ci si sposa, e il matrimonio è assolutamente insolubile!
L'episodio è di fantasia, ma vi stupireste se scoprissimo che è accaduto davvero, non una ma più volte? Viviamo in una curiosa epoca fatta di ridondanze rotonde, grasse e perditempo. "Sì" e "no" sono già degli assoluti, altrimenti diremmo forse sì, probabilmente no o cose simili. Eppure sentiamo il bisogno di aggiungervi una parolaccia di ben sei sillabe, obesa come capita a quasi tutti gli avverbi che finiscono in -ente, assolutamente (sic) ingestibili nei titoli dei giornali, soprattutto su una o due colonne. È talmente lunga, la parolaccia, che in fondo a scriverla ci mettiamo poco, ma a pronunciarla, pena restare strangolati con i polmoni aridi tipo lo spazio profondo di "Gravity" o il "Deserto Dipinto" di Tex? Dobbiamo affettarla in tre parti: àsso-lùta-ménte, a riprova che è proprio una parola brutta e faticosa.
A volte è necessaria, sia chiaro. Meglio però limitarsi all'aggettivo: le Monarchie assolute erano quelle in cui in sovrano regnava senza se e senza ma, almeno fino a quando i suoi sudditi più intraprendenti gliel'hanno impedito: gli assoluti fanno male alla democrazia. In genere, comunque, assolutamente come rafforzativo è superfluo e tradisce semmai la debolezza di chi vi ricorre: il suo sì è tutt'altro che certo ma viviamo in un tempo in cui conviene esibire i muscoli che non abbiamo e le sicurezze che non possediamo, e quell'avverbio lungo come una giornata senza pane diventa il doping dei pavidi, o forse solo una moda buona per allungare il brodo. Chi dice soltanto sì o no passa per un taciturno che pecca d'eccesso di sobrietà, un asociale.
Viviamo – assolutamente sì: stavolta è assolutamente necessario! – nel tempo dell'eclissi delle certezze, in cui il solido si fa liquido (quanto ci manchi, maestro Bauman); la penuria, come insegna il mercato, aumenta il desiderio e il valore della merce mancante, materiale o immateriale; e allora la certezza andiamo a cercarla del doping delle parolacce: titubanti no, roboanti sì. Il doping illude chi ne abusa di essere forte quando invece è debole; peggio, dà assuefazione e costringe ad aumentare le dosi; e gli "assolutamente sì, assolutamente no" scivolano di bocca in bocca con gran soddisfazione di chi li pronuncia, quasi sempre a vanvera. Ti piacciono di asparagi? Assolutamente sì. Allora ne sei ghiotto? Assolutamente no, mi piacciono e basta. Ecco.
Usato nei dialoghi, nei confronti televisivi, nel dibattito pubblico l'abuso del superlativo ad ogni costo determina la fine del dialogo. Si procede per affermazioni secche e nette, apodittiche ossia inconfutabili e inaffondabili, e chi non è d'accordo è un eretico. Ci si può soltanto accapigliare, mai dialogare, ossia costruire piccole certezze comuni a partire da piccole verità personali che, incontrandosi, germinano.
E pensare che il Maestro ammoniva (Matteo, 5, 37): «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno», colui che gode nel confondere e dividere, anche distribuendo superlativi assoluti fuori luogo. Se proprio sentiamo il bisogno di qualcosa di assoluto, ascoltiamo "Absolutely Live" dei Doors (1970): tutto dal vivo, sì, senza dubbio alcuno.