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Anticorpi culturali contro l'ascesa della «teologia tecnocratica»

Roberto Righetto giovedì 15 giugno 2017
Si può considerare Francesco Bacone il primo teorico della tecnocrazia. Nato nel 1561 e morto nel 1626, fu un precursore nel cogliere il rapporto fra le conquiste della scienza e il miglioramento delle condizioni di vita dell'uomo. Aveva una visione utilitaristica del sapere e soprattutto intuì la capacità della scienza di «dotare la vita umana di nuove invenzioni e ricchezze». Dopo aver definito nel Novum Organum le coordinate di una nuova filosofia della scienza, nel De dignitate et augmentis scientiarum elaborò addirittura il progetto di una scuola per inventori, una sorta di Mit (il famoso Massachussetts Institute of Technology) ante litteram. Chiedeva agli Stati di stipendiare gli inventori e pensava che gli scienziati dovessero godere di alte remunerazioni per tenere pubbliche conferenze in cui informare la popolazione sull'importanza e sull'utilità pratica delle loro invenzioni. Insomma, concepì l'idea dell'organizzazione scientifica come oggi la conosciamo.
È al famoso teorico delle comunicazioni Neil Postman che si deve questa analisi della nascita della tecnocrazia, esplosa poi a partire dal 1765 con l'invenzione della macchina a vapore da parte di James Watt e radicatasi concettualmente nel 1776 con la pubblicazione del saggio La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, che giustificò la trasformazione del lavoro in produzione meccanizzata su vasta scala. Alla storia della tecnologia nelle sue varie fasi, dagli utensili alla tecnocrazia all'attuale tecnopolio, Postman ha dedicato uno studio importante, Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, uscito nel 1992 in America e un anno dopo in Italia per i tipi di Bollati Boringhieri. Allievo ed amico di Marshall MacLuhan, Postman ha fondato alla New York University un progetto di ricerca denominato “Ecologia dei media” e per tutta la vita (è morto nel 2003) ha esaminato con passione la mutazione antropologica provocata dai mass media, tv e computer in particolare, nella società americana e occidentale in genere. Nel libro che qui presentiamo fa assai di più: dimostra come il dominio della tecnologia nella vita di tutti i giorni, oltre a portarci innumerevoli benefici, produce una cultura totalizzante, «l'assoggettamento di tutte le forme della vita culturale alla sovranità della tecnica e della tecnologia». Cultura che si è realizzata negli Stati Uniti a partire dall'impero di Henry Ford e dal taylorismo applicato a ogni sistema produttivo.
L'idea del progresso umano è stata sostituita dal progresso tecnologico e in questo cambiamento un ruolo essenziale riveste l'informazione. Annota Postman: «Siamo una cultura che si autoconsuma con l'informazione e molti di noi non si chiedono nemmeno come si possa controllare questo processo. Convinti che le culture possano subire un grave danno dalla mancanza di informazione, e infatti così è, solo ora però stiamo cominciando a capire che le culture possono subire un grave danno anche dall'eccesso d'informazione, da un'informazione priva di senso e di meccanismi di controllo».
Come impedire l'affermarsi di una vera e propria “teologia tecnocratica” che ha i suoi sacerdoti nei burocrati e negli esperti? Per Postman la società deve ritrovare gli anticorpi a questo fenomeno che ci rende più ignoranti invece che sapienti attraverso la scuola e l'università, chiamate a stimolare il pensiero critico. Puntando su materie come la semantica, «perché è impossibile separare la lingua dal sapere», la storia (compresa la storia della tecnologia) e la religione, «con la quale è intessuta tanta pittura, musica, tecnologia, architettura, letteratura e scienza». L'intelligenza umana va stimolata con altre forme rispetto alla logica dei computer e alla cultura del tecnopolio che vuole ridurre gli uomini a macchine, «macchine pensanti, beninteso, ma pur sempre macchine». Per cui «i sacerdoti del tecnopolio chiamano il peccato “devianza sociale”, che è un concetto statistico, e il male “psicopatologia”, che è un concetto medico». Il bene e il male finiscono per non avere più senso così come l'universo morale che rappresentano. Proprio per questo non possiamo farli scomparire.