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Addio, un'arte difficile che pochi sanno usare

Umberto Folena domenica 27 dicembre 2020
Addio. O, se preferiamo Catullo, ave atque vale. È la parola semplice – né al dispregiativo né al diminutivo – che diciamo con la ragionevole certezza di non rivederci più. Addio è parola attigua a fine. È un punto fermo, un presente secco e fulmineo senza un futuro, un domani che non c'è, una stazione di testa, un serbatoio senza benzina, una faretra senza frecce. Addio.
Gli addii sono tutti difficili perché è facilissimo scivolare nella retorica. Gli addii interminabili ti fan pensare: "Che aspetti a finire, taglia corto!"; gli addii fulminei possono lasciare interdetti: "Be', tutto qui? Tanto tempo insieme e hai da dire solo due mezze parole?". Insomma, con gli addii il rischio di sbagliare è enorme, e di fatto gli addii riusciti sono merce rarissima. Il senso della misura, che non basta una vita a conquistarlo del tutto, in questo caso è impresa titanica. Ma i titani, poi, sapevano dirsi addio? Ah, saperlo.
Per questo motivo conviene attingere a fonti autorevoli. In tal modo, se dovessimo sbagliare, sbaglieremmo autorevolmente. Si potrebbe dire, gelidamente, che questa è la puntata finale, con ciò citando Stephen King: «I finali sono senza cuore. Finale è solo un sinonimo di addio». Troppo crudele e drammatico. Meglio ricorrere al poeta inglese John Keats, che accomiatandosi dall'amico e benefattore Charles Brown, ricorre saggiamente alla sottile ironia british: «Mi riesce difficile dirti addio anche per lettera. Sono sempre stato goffo nel fare l'inchino».
Si potrebbe tenere un tono alto, ricorrendo perfino all'endecasillabo a cui Alessandro Manzoni, versificatore ben prima e ben più che prosatore, andava a inciampare felicemente: «Addio, monti sorgenti dalle acque, ed elevati al cielo; cime ineguali...». Bisognerebbe però essere all'altezza di tante cime. Si potrebbero indossare i panni del duro, fare una smorfia e adottare la prosa, qui assai yankee, di John Ernst Steinbeck: «Addio è breve e finale, una parola dai denti aguzzi che mordono la corda che lega il passato al futuro». E a questo punto spegnere la luce e sparire.
Se amassimo le sentenze, potremmo approfittare di Rainer Maria Rilke, che essendo poeta e tedesco pare particolarmente adatto alla circostanza: «Noi viviamo per dire sempre addio». Drastico ma efficace, si memorizza subito e nessuno ti chiede di ripetere perché non ha capito bene. Un altro poeta, stavolta inglese, sir George G. Byron, è ancora più semplice e chiaro: «Quando sono per sempre, gli addii dovrebbero essere rapidi». È chiaro che qui vanno in crisi coloro che pretendono ampie e dettagliate spiegazioni (che in genere non riescono a spiegare nulla) o avvertono l'irrefrenabile impulso di elargirle, annoiando a morte i fan di Byron.
Ma allora perché non sparire così, senza tanti addii? Perché potrebbe non avere tutti i torti il giovane Holden di J. D. Salinger: «Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l'addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio».
Addio, dunque. Sono stati due anni felici. Quando scrivi frugando tra le parole (parolacce, paroline...), finisci con lo scoprire qualche orrore e molti tesori inattesi. Non ho la più pallida idea di quanti compagni di viaggio io abbia avuto. Tanti, nessuno, pochi... Quando di mestiere scrivi, perché hai la fortuna che qualcuno ti pubblichi, devi abituarti a bastare a te stesso. E poi questo è un addio truffaldino. Non è che me ne vada e sparisca. Mi sposto: di giorno, di spazio e di argomento. Meglio diffidare di chi ci dice addio addio addio.