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Kenya, il Papa all'Onu. Il Papa: interessi privati non prevalgano alla Conferenza sul clima

giovedì 26 novembre 2015
Desidero ringraziare per il gentile invito e le parole di benvenuto la Signora Sahle-Work Zewde, Direttore Generale dell’Ufficio delle Nazioni Unite a Nairobi, come pure il Signor Achim Steiner, Direttore Esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, e il Signor Joan Clos, Direttore Esecutivo di ONU-Habitat. Colgo l’occasione per salutare tutto il personale e tutti coloro che collaborano con le istituzioni qui presenti. Mentre raggiungevo questa sala, sono stato invitato a piantare un albero nel parco del Centro delle Nazioni Unite. Ho voluto accettare questa gesto simbolico e semplice, pieno di significato in molte culture. Piantare un albero è, in primo luogo, un invito a continuare a lottare contro fenomeni come la deforestazione e la desertificazione. Ci ricorda l’importanza di tutelare e gestire in modo responsabile quei «polmoni del pianeta colmi di biodiversità [come possiamo ben apprezzare in questo continente con il bacino fluviale del Congo», luoghi essenziali «per l’insieme del pianeta e per il futuro dell’umanità». Per questo, è sempre apprezzato e incoraggiato «l’impegno di organismi internazionali e di organizzazioni della società civile che sensibilizzano le popolazioni e cooperano in modo critico, anche utilizzando legittimi meccanismi di pressione, affinché ogni governo adempia il proprio e non delegabile dovere di preservare l’ambiente e le risorse naturali del proprio Paese, senza vendersi a ambigui interessi locali o internazionali» (Enc. Laudato si’, 38). A sua volta, piantare un albero ci provoca a continuare ad avere fiducia, a sperare e soprattutto a impegnarci concretamente per trasformare tutte le situazioni di ingiustizia e di degrado che oggi soffriamo. Fra pochi giorni inizierà a Parigi una riunione importante sul cambiamento climatico, in cui la comunità internazionale in quanto tale affronterà nuovamente questa problematica. Sarebbe triste e, oserei dire, perfino catastrofico che gli interessi privati prevalessero sul bene comune e arrivassero a manipolare le informazioni per proteggere i loro progetti. In questo contesto internazionale, nei quale si pone l’alternativa che non possiamo ignorare, se cioè migliorare o distruggere l’ambiente, ogni iniziativa intrapresa in tal senso, piccola o grande, individuale o collettiva, per prendersi cura del creato, indica la strada sicura per una «creatività generosa e dignitosa, che mostra il meglio dell’essere umano» (ibid., 211). «Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti; […] i cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche, e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità» (ibid., 23-25) la cui risposta «deve integrare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei più svantaggiati» (ibid., 93). Dal momento che «l’abuso e la distruzione dell’ambiente, allo stesso tempo, sono associati ad un inarrestabile processo di esclusione» (Discorso all’ONU, 25 settembre 2015). La COP21 è un passo importante nel processo di sviluppo di un nuovo sistema energetico che dipenda al minimo da combustibili fossili, punti all’efficienza energetica e si basi sull’uso di energia a basso o nullo contenuto di carbonio. Ci troviamo di fronte al grande impegno politico ed economico di reimpostare e correggere le disfunzioni e le distorsioni del modello di sviluppo attuale. L’accordo di Parigi può dare un segnale chiaro in questa direzione, a condizione che, come ho avuto occasione di dire davanti all’Assemblea Generale dell’ONU, evitiamo «qualsiasi tentazione di cadere in un nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze. Dobbiamo aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci» (ibid.). Per questo spero che la COP21 porti a concludere un accordo globale e “trasformatore”, basato sui principi di solidarietà, giustizia, equità e partecipazione, e orienti al raggiungimento di tre obiettivi, complessi e al tempo stesso interdipendenti: la riduzione dell’impatto dei cambiamenti climatici, la lotta contro la povertà e il rispetto della dignità umana. Nonostante molte difficoltà, si sta affermando «la tendenza a concepire il pianeta come patria e l’umanità come popolo che abita una casa comune» (Enc. Laudato si’, 164). Nessun paese «può agire al di fuori di una responsabilità comune. Se vogliamo davvero un cambiamento positivo, dobbiamo accettare umilmente la nostra interdipendenza, cioè la nostra sana interdipendenza» (Discorso ai movimenti popolari, 9 luglio 2015). Il problema sorge quando crediamo che l’interdipendenza sia sinonimo di imposizione o sottomissione di alcuni in funzione degli interessi degli altri. Del più debole in funzione del più forte. È necessario un dialogo sincero e aperto, con la collaborazione responsabile di tutti: autorità politiche, comunità scientifica, imprese e società civile. Non mancano esempi positivi che ci mostrano come una vera collaborazione tra la politica, la scienza e l’economia è in grado di ottenere risultati importanti. Siamo consapevoli, tuttavia, che «gli esseri umani, capaci di degradarsi fino all’estremo, possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi» (Enc. Laudato si’, 205). Questa presa di coscienza profonda ci porta a sperare che, se l’umanità del periodo post-industriale potrebbe essere ricordata come una delle più irresponsabili nella storia, «l’umanità degli inizi del XXI secolo possa essere ricordata per aver assunto con generosità le proprie gravi responsabilità» (ibid., 165). A tale scopo è necessario mettere l’economia e la politica al servizio dei popoli dove «l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione affinché le capacità e le esigenze di ciascuno trovino espressione adeguata nella dimensione sociale» (Discorso ai movimenti popolari, 9 luglio 2015). Non è un’utopia o una fantasia, al contrario è una prospettiva realistica che pone la persona e la sua dignità come punto di partenza e verso cui tutto deve tendere. Il cambio di rotta di cui abbiamo bisogno non è possibile realizzarlo senza un impegno sostanziale nell’istruzione e nella formazione. Nulla sarà possibile se le soluzioni politiche e tecniche non vengono accompagnate da un processo educativo che promuova nuovi stili di vita. Un nuovo stile culturale. Ciò richiede una formazione destinata a far crescere nei bambini e nelle bambine, nelle donne e negli uomini, nei giovani e negli adulti, l’assunzione di una cultura della cura: cura di sé, cura degli altri, cura dell’ambiente, al posto della cultura del degrado e dello scarto: scarto di sé, dell’altro, dell’ambiente. La promozione della «coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Emerge così una grande sfida culturale, spirituale e educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione» (Enc. Laudato si’, 202) che abbiamo il tempo di portare avanti. Sono molti i volti, le storie, le conseguenze evidenti in migliaia di persone che la cultura del degrado e dello scarto ha portato a sacrificare agli idoli del profitto e del consumo. Dobbiamo stare attenti a un triste segno della «globalizzazione dell’indifferenza, che ci fa lentamente “abituare” alla sofferenza dell’altro, quasi fosse normale» (Messaggio per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2013, 16 ottobre 2013, 2), o peggio ancora, a rassegnarci alle forme estreme e scandalose di “scarto” e di esclusione sociale, come sono le nuove forme di schiavitù, il traffico delle persone, il lavoro forzato, la prostituzione, il traffico di organi. «E’ tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa» (Enc. Laudato si’, 25). Sono molte vite, molte storie, molti sogni che naufragano nel nostro presente. Non possiamo rimanere indifferenti davanti a questo. Non ne abbiamo il diritto. Parallelamente al degrado dell’ambiente, da tempo siamo testimoni di un rapido processo di urbanizzazione, che purtroppo porta spesso a una «smisurata e disordinata crescita di molte città che sono diventate invivibili [e …] inefficienti» (ibid., 44). E sono anche luoghi dove si diffondono preoccupanti sintomi di una tragica rottura dei legami di integrazione e di comunione sociale, che porta all’«aumento della violenza e il sorgere di nuove forme di aggressività sociale, il narcotraffico e il consumo crescente di droghe fra i più giovani, la perdita di identità» (ibid., 46), lo sradicamento e l’anonimato sociale (cfr ibid., 149). Voglio esprimere il mio incoraggiamento a quanti, a livello locale e internazionale, lavorano per assicurare che il processo di urbanizzazione si converta in uno strumento efficace per lo sviluppo e l’integrazione, al fine di assicurare a tutti, specialmente a coloro che vivono in quartieri marginali, condizioni di vita dignitose, garantendo i diritti fondamentali alla terra, alla casa e al lavoro. E’ necessario promuovere iniziative di pianificazione urbana e cura degli spazi pubblici che vadano in questa direzione e prevedano la partecipazione della gente del luogo, cercando di contrastare le numerose disuguaglianze e le sacche di povertà urbana, non solo economiche, ma anche e soprattutto sociali e ambientali. La prossima Conferenza Habitat-III, in programma a Quito nel mese di ottobre 2016, potrebbe essere un momento importante per individuare modi di affrontare queste problematiche. Fra pochi giorni, questa città di Nairobi ospiterà la 10ª Conferenza Ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Nel 1967, di fronte ad un mondo sempre più interdipendente, e anticipando di anni la realtà attuale della globalizzazione, il mio predecessore Paolo VI rifletteva su come le relazioni commerciali tra gli Stati potrebbero essere un elemento fondamentale per lo sviluppo dei popoli o, al contrario, causa di miseria e di esclusione (cfr Enc. Populorum progressio, 56-62). Pur riconoscendo il molto lavoro fatto in questo settore, sembra che non si sia ancora raggiunto un sistema commerciale internazionale equo e completamente al servizio della lotta contro la povertà e l’esclusione. Le relazioni commerciali tra gli Stati, parte essenziale delle relazioni tra i popoli, possono servire sia a danneggiare l’ambiente sia a recuperarlo e assicurarlo alle generazioni future. Esprimo il mio auspicio che le decisioni della prossima Conferenza di Nairobi non siano un mero equilibrio di interessi contrapposti, ma un vero servizio alla cura della casa comune e allo sviluppo integrale delle persone, soprattutto dei più abbandonati. In particolare, voglio unirmi alle preoccupazioni di molte realtà impegnate nella cooperazione allo sviluppo e nell’assistenza sanitaria - tra cui le congregazioni religiose che assistono i più poveri e gli esclusi -, circa gli accordi sulla proprietà intellettuale e l’accesso ai farmaci e all’assistenza sanitaria di base. I Trattati regionali di libero scambio in materia di protezione della proprietà intellettuale, in particolare nel settore farmaceutico e delle biotecnologie, non solo non devono limitare i poteri già conferiti agli Stati da accordi multilaterali, ma, al contrario, dovrebbero essere uno strumento per garantire un minimo di cura e di accesso alle cure essenziali per tutti. Le discussioni multilaterali, a loro volta, devono dare ai Paesi più poveri il tempo, l’elasticità e le eccezioni necessarie ad un adeguamento ordinato e non traumatico alle regole commerciali. L’interdipendenza e l’integrazione delle economie non devono comportare il minimo danno ai sistemi sanitari e di protezione sociale esistenti; al contrario, devono favorire la loro creazione e il funzionamento. Alcuni temi sanitari, come l’eliminazione della malaria e della tubercolosi, la cura delle cosiddette malattie “orfane” e i settori trascurati della medicina tropicale, richiedono un’attenzione politica prioritaria, al di sopra di qualsiasi altro interesse commerciale o politico. L’Africa offre al mondo una bellezza e una ricchezza naturale che ci porta a lodare il Creatore. Questo patrimonio africano e di tutta l’umanità subisce un costante rischio di distruzione causato da egoismi umani di ogni tipo e dall’abuso di situazioni di povertà e di esclusione. Nel contesto delle relazioni economiche tra gli Stati e i popoli non si può omettere di parlare dei traffici illeciti che crescono in un contesto di povertà e che, a loro volta, alimentano la povertà e l’esclusione. Il commercio illegale di diamanti e pietre preziose, di metalli rari o di alto valore strategico, di legname e materiale biologico, e di prodotti di origine animale, come il caso del traffico di avorio e il conseguente sterminio di elefanti, alimenta l’instabilità politica, la criminalità organizzata e il terrorismo. Anche questa situazione è un grido degli uomini e della terra che dev’essere ascoltato da parte della comunità internazionale. Nella mia recente visita alla sede dell’ONU a New York, ho potuto esprimere l’auspicio e la speranza che l’opera delle Nazioni Unite e di tutti i processi multilaterali possa essere «pegno di un futuro sicuro e felice per le generazioni future. Lo sarà se i rappresentanti degli Stati sapranno mettere da parte interessi settoriali e ideologie e cercare sinceramente il servizio del bene comune» (Discorso all’ONU, 25 settembre 2015). Rinnovo ancora una volta l’impegno della Comunità Cattolica e il mio di continuare a pregare e collaborare perché i frutti della cooperazione regionale che si esprimono oggi in seno all’Unione Africana e nei molti accordi africani di commercio, di cooperazione e di sviluppo, siano vissuti con vigore e tenendo sempre conto del bene comune dei figli di questa terra. La benedizione dell’Altissimo sia su tutti e ciascuno di voi e sui vostri popoli. Grazie.