Opinioni

Lettere. Zaire 1996: «Io, missionario, cerco di dare speranza a chi non ha futuro»

Le nostre voci di Marina Corradi mercoledì 17 maggio 2017

Caro Avvenire,
ho trovato fra le mie carte questa lettera di mio fratello, padre Giovanni Santolini, missionario in Zaire, datata 1996. Ve la mando, perché mi sembra ancora di grande attualità.

Pio Santolini

«Carissimi tutti,
qui in Zaire siamo sempre in una situazione di grande miseria a tutti i livelli e quello che corrode di più è il clima di insicurezza e di mancanza di avvenire che si respira. Si vive veramente alla giornata, non sapendo quello che si farà domani, che cosa si mangerà, come si potrà vivere e che cosa succederà. Purtroppo la gente non ha più futuro, nel senso che veramente la situazione è talmente incerta che: “Intanto cerchiamo di vivere oggi”. Quello che io cerco di fare e che mi sono prefisso come compito in questo momento è di dare speranza. Credo che sia importante per qualcuno che non ha futuro, che deve combattere ogni giorno per arrivare a mettere qualcosa nello stomaco, che vede i suoi figli e la sua famiglia disgregarsi e spegnersi nel vuoto ... , credo che sia importante avere una speranza che questa situazione non durerà all’infinito. Avere la certezza che ci sarà un cielo sereno, un sorriso sincero che può sbocciare sulle labbra di chi ami, la certezza che esiste un mondo nel quale puoi fare dei programmi e realizzarli, puoi veder crescere quello che hai seminato senza che sia distrutto e rubato ogni volta. Ecco quello che cerco di fare, ecco il senso della mia presenza qui in questi momenti. Se dovessi partire, se dovessi dare ascolto alla paura che c’è in me, sarebbe come se tirassi una tenda sulla finestrella che Dio vuole aprire e negassi il misero raggio di speranza che passa attraverso la mia piccola presenza. Ma anche voi siete importanti, prima di tutto per me per sostenermi, perché il fatto che ci siete e mi volete bene, mi dà la forza di superare lo scoraggiamento e lo slancio per andare avanti. Siete anche luce di speranza e di fiducia per il mio popolo, perché sanno che non sono abbandonati, che dietro di me ci sono tutte queste persone, anonime è vero, ma reali e concrete, che li amano attraverso di me e sulle quali possono sempre contare. Ecco la ragione del mio “grazie”: continuate ad essere segno di speranza per la mia gente, per tutti quelli che non hanno un domani e vedrete che questo “domani” lo costruiamo insieme. E anche voi contate su di me, per quello che posso essere di speranza anche per voi».

vostro Padre Giovanni Santolini, Omi Zaire

Padre Giovanni Santolini, missionario Oblato di Maria immacolata, morì pochi mesi dopo avere scritto questa lettera, in un incidente a Kinshasa, nel marzo 1997. Ma la missiva di vent’anni fa, inviataci dal fratello, in effetti è attuale come allora. Attuale in ogni mondo di povertà e di fame, come lo Zaire (oggi Congo) del 1996. E forse perfino nell’altra metà del mondo, nella nostra, dove apparentemente le cose essenziali ci sono, e anche parecchie superflue. «Intanto cerchiamo di vivere oggi», si diceva la gente di Kinshasa, come probabilmente se lo dice oggi a Homs, nello Yemen della carestia, nei Paesi nigeriani minacciati da Boko Haram, nei campi profughi che accolgono milioni di persone. È giusto, l’uomo è un animale che tenacemente vuole vivere, anche nelle condizioni più disperate, e per vivere si concentra sulla giornata, su un piatto di minestra la sera, su un po’ di latte per i suoi bambini. Tuttavia, c’è un altro pane di cui gli uomini hanno forse un ancora più assoluto bisogno. «Quello che io cerco di fare e che mi sono prefisso come compito in questo momento è di dare speranza», scriveva padre Giovanni, in una sola riga riuscendo a riassumere il senso di una vita intera. Di una vocazione, di un’ordinazione, di una partenza. Forse, degli amici attorno, qualcuno non capiva. «Cosa vai a fare? E così lontano, poi», domandavano magari. Probabilmente padre Santolini ha impiegato degli anni per arrivare a formulare lo scopo della sua missione in modo così netto e incisivo. Lo ha capito in mezzo alla sua gente, nel fondo della miseria, tra quelle facce di donne e uomini trafelati, tesi a farcela un giorno ancora. Loro cercavano di vivere ancora una notte, ma in fondo al cuore desideravano una speranza. La speranza che la vita non sarebbe stata sempre così, solo così. E quello straniero venuto da lontano, con la sua gratuita presenza, testimoniava che una speranza c’era, e la sua stessa vita lo dimostrava. Nel 1942 la giovane ebrea Etty Hillesum, fra le baracche del campo di deportazione di Westerbork, in Olanda, riusciva a essere contenta semplicemente della bellezza di un arcobaleno in cielo. Ma quando le altre ebree le domandavano perché sorrideva, lei, per non deluderle, si inventava una fasulla storia del re d’Italia e di una guerra sul punto di finire: per dare alle sue compagne una speranza. Siamo chiamati a essere una speranza, ha detto a Fatima il Papa pochi giorni fa, e, ha aggiunto, che non ci accada di essere una speranza abortita. Forse allora l’intuizione di questo missionario morto vent’anni fa vale anche per noi, nelle nostre case e nelle nostre città. Cercare di essere, per gli altri, fonte di speranza. È una questione che raramente ci si pone, in genere giudichiamo la nostra vita in termini di cose fatte, di opere riuscite, di benessere raggiunto. Ma, se avesse ragione padre Giovanni dal suo Zaire di vent’anni fa, allora dovremmo cominciare a guardare alle nostre giornate in tutto un altro modo.