Opinioni

Senza intese diplomatiche, domina la guerra. Yemen prigioniero dei fallimenti

Eleonora Ardemagni venerdì 12 agosto 2016

La diplomazia fallisce ancora e la guerra rialza la testa: la soluzione politica del conflitto in Yemen è più che mai lontana, mentre la coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita ha sferrato trenta attacchi aerei contro i miliziani sciiti nella sola giornata di domenica scorsa. «Solo due settimane per negoziare», aveva d’altronde scandito l’emiro del Kuwait, Paese che ha ospitato i negoziati fra il governo legittimo yemenita e gli insorti sciiti (gli huthi del movimento Ansarullah e i fedeli dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh), interrottisi sabato scorso dopo l’ennesimo nulla di fatto. Invece, il fatto nuovo va nella direzione esattamente opposta: Ansarullah e il blocco di Saleh hanno dato vita a un 'comitato politico' per il governo del Paese in aperta sfida alle richieste Onu, sostituendo quel «comitato rivoluzionario» proclamato dagli huthi all’indomani del golpe, datato gennaio 2015. Il fallimento di questa tornata di colloqui, la terza dall’inizio del conflitto nel 2015, sta spingendo lo Yemen, già il Paese più povero del Medio Oriente e del Nord Africa, verso il punto di non ritorno, anche umanitario: le vittime sono almeno 6.400 e quasi 3 milioni gli sfollati interni.

E le rituali affermazioni dell’inviato delle Nazioni Unite, secondo il quale le parti in conflitto torneranno a riunirsi entro un mese «in un luogo da decidere», suonano quanto mai vuote. Infatti, le fazioni sono da tempo arroccate su posizioni distanti: il governo legittimo chiede il ritiro degli insorti dalle aree occupate e la restituzione delle armi sottratte alle Forze armate (come recita la risoluzione 2216 dell’Onu), mentre i miliziani sciiti esigono prima la formazione di un governo di unità nazionale. 

 Al di là delle incertezze diplomatiche, quattro dinamiche politiche sono invece chiare. Innanzitutto, l’intervento militare dell’Arabia Saudita ha sigillato l’alleanza strumentale, non ideologica, fra gli huthi e Saleh: l’opposizione a Riad è infatti il collante di questo patto fra antichi nemici, accomunati dalla difesa delle originarie terre del nord e soprattutto dalla volontà di (ri)conquista del potere. La chiave di volta del conflitto yemenita è ormai lo scontro fra i sauditi e gli huthi: non è casuale che colloqui informali tra le parti (al di fuori della cornice Onu) avessero temporaneamente ridotto la violenza lungo il confine, mentre i raid sauditi si concentrano ora proprio tra la capitale e Saada, roccaforte huthi.

Da una prospettiva geopolitica, la Russia appoggia, anche in Yemen, il fronte sciita sostenuto dall’Iran, come già in Siria e in Iraq, nel quadro della sua rinnovata politica d’influenza in Medio Oriente. Mosca ha appena posto il veto alla risoluzione Onu che intendeva condannare il 'comitato politico' istituito dai miliziani sciiti. L’interesse nazionale degli Stati Uniti in Yemen è la lotta alle formazioni jihadiste, ovvero al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) e la provincia locale del cosiddetto Stato Islamico: ma lasciando il 'dossier Yemen' nelle sole mani dell’alleato saudita, Washington ha indirettamente contribuito all’indebolimento del governo legittimo e dunque all’espansione territoriale jihadista, con Aqap che è arrivata a controllare alcune città strategiche nel Sud.

È sintomatico che Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti abbiano iniziato da qualche mese a bombardare, in maniera inedita, postazioni e campi d’addestramento jihadisti lungo le coste meridionali. 

 Le linee del fronte sono tante. L’esercito regolare e le tribù che si oppongono all’alleanza huthi-Saleh intensificano le operazioni militari a est della capitale occupata Sana’a, avvicinando la battaglia per la sua riconquista, più volte rinviata. Gli scontri lungo il confine tra Arabia Saudita e Yemen sono tornati frequenti, così come il lancio di missili in territorio saudita: negli ultimi giorni, almeno una quindicina di militari sauditi di frontiera hanno perso la vita. Taiz, terzo cento urbano e culla dell’islamismo yemenita, è una città ancora contesa. Proprio a Taiz, la recente distruzione dell’antica moschea sufi di Shaykh Abdulhadi al-Sudi (il sufismo è la corrente più mistica e tollerante dell’islam) rappresenta l’ennesimo sfregio al pluralismo culturale dello Yemen. Il prossimo ritorno delle fazioni in lotta al tavolo negoziale, pertanto, non è affatto scontato. E ancor meno lo sarà la prospettiva di un accordo durevole.