Opinioni

Vita e morte, le esplosioni della cronaca e le ragioni della speranza

Marco Tarquinio giovedì 2 marzo 2017

Caro direttore,
stavolta scrivo, più che mai, con notevole esitazione: non mi sento, infatti, del tutto capace di mantener fede all’impegno di essere immune dal condizionamento di sentimenti personali. Sono infatti genitore adottivo (sia pure, ormai, di figli adulti e purtroppo non più accompagnato da mia moglie, defunta da quasi 15 anni dopo aver vissuto, lei con quella particolare intensità che è propria di una donna, anche quest’esperienza). Dico subito che sono del tutto d’accordo con la critica espressa ieri da “Avvenire”, attraverso un “Secondo Noi”, alla sentenza di Trento sulla «maternità surrogata»: e, questo, non solo per gli interrogativi che anche in me suscita ogni caso di “giurisprudenza creativa” ma anche, nel merito, per lo sconcerto che provo di fronte alla pratica dell’“utero in affitto”, sia in se stessa, sia, e più ancora, in quanto oggetto di una battaglia ideologica. Mi permetto tuttavia di dissociarmi dai toni usati talora, non certo da parte di “Avvenire” né, in genere, di voci autorevoli del Magistero della Chiesa, ma da parte di coloro che da “cattolici” pur pretendono di parlare in nome del Vangelo. Non è questione di ignorare la gravità della marea che su questo, come su altri temi sensibili dell’etica, va montando a opera di campagne politiche e mediatiche sconcertanti, sfruttando sentimenti e atteggiamenti di singoli. È però questione di serenità che si dovrebbe avere nel considerare l’estrema varietà di situazioni che, al di là delle formule giuridiche, si possono riscontrare nelle situazioni in cui non è una coppia “normale”, composta cioè da una donna-madre e da un uomo-padre, ad assumersi il compito di “tirare su” un bambino. Per finire, un appunto, questo – lo riconosco – più particolarmente condizionato dalla mia scarsa obiettività in argomento, come dicevo prima. È proprio giusto insistere – come si fa spesso – sull’«identità biologica» assunta come un dato assolutamente discriminante in questi campi? Certo, è sacrosanto il diritto di ognuno di poterla conoscere, almeno al raggiungimento di una certa età; ma ci si deve rendere conto che, se quel dato viene invocato per esigere un’assoluta diversità di stato giuridico tra la filiazione “naturale” e altre forme nelle quali si può esprimere il caleidoscopio della realtà di rapporti tra adulti e minorenni, va in crisi anche l’attuale normativa sull’adozione (e in effetti, se ben ricordo, in un articolo di qualche tempo fa proprio su “Avvenire”, il problema veniva posto da Francesco D’Agostino). Intendiamoci. Non è piccola, da tanti punti di vista, la differenza tra l’adozione – di imitatio naturae, se ne parlava una volta – e l’«utero in affitto». Però, quando si evocano certi argomenti, bisogna sapere dove si può finire se vengono poi coerentemente sviluppati fino in fondo.

Mario Chiavario


Caro direttore,
dicono che la legge sulle unioni civili non prevede né la stepchild adoption né la maternità surrogata. A chi vogliono darla a bere? Con la legalizzazione delle unioni civili etero ed omo, era così difficile capire che quella scelta sarebbe stata propedeutica anche a quello a cui abbiamo assistito con la sentenza della Corte d’Appello di Trento sulla doppia «genitorialità» di due uomini conviventi che hanno ottenuto una coppia di gemelli con la pratica dell’«utero in affitto»? Ed è così difficile capire che a casi come questo assisteremo ancora grazie a certe sentenze creative? Alla faccia della «tutela dell’interesse superiore del minore», che non è quello indicato dalla Corte di Trento, ma quello che la natura impone e cioè ad avere un padre e una madre.

Vittorio Colavitto


Gentile direttore,
scrivo in riferimento all’articolo apparso su “Noi Famiglia & Vita” di febbraio 2017 a proposito della «spinta politica» per adozioni anche da parte di «coppie omosessuali» e nel clima creato dalla sentenza della Corte di Appello di Trento sulla «genitorialità» di una coppia di uomini. Il tema è importante e andrebbe considerato nella sua pienezza (e quindi anche a riguardo alla tutela dei minori stranieri che arrivano nel nostro Paese «non accompagnati»). La normativa vigente è scarna e farraginosa, e non dà risposta adeguata alle coppie sposate, uomo e donna, disponibili ad accogliere minori abbandonati. La verità è che esse non sono tutelate da nessuno, e la mia esperienza mi porta a dire che la burocrazia finisce per prevalere sul gesto nobile, umanamente e cristianamente, compiuto da chi si apre all’accoglienza. Non voglio neppure entrare, per rispetto di ogni altra persona, nelle “trasformazioni” a cui si sta assoggettando la famiglia anche per via legislativa, ma so che è irrinunciabile intervenire in sede legislativa, e finalmente in modo serio, per tutelare prima di tutto le coppie fondate dal matrimonio di una donna e di un uomo (art. 29 della Costituzione) e i minori abbandonati.


Rachele Digiglio


Caro direttore,
i due recenti fatti del povero Fabo e dei bambini affidati a due padri – a due padri!, assurdo; dallo Stato attraverso i suoi giudici!, doppiamente assurdo – possono essere considerati, con tanti altri fenomeni simili, emblematici di una condizione di fatto, alimentata negativamente dal mondo della comunicazione: il mondo non è più cristiano. L’assenza di Gesù Cristo, Dio che si è fatto uomo, è il grande problema: la Sua Presenza, per mezzo del suo strumento che è la compagnia della Chiesa, avrebbe potentemente usato misericordia e salvezza nel caso di Fabo, avrebbe autorevolmente detto la verità sulla genitorialità naturale nel caso dei due bambini. Le nostre miserie non sono più cristiane, questo è il grande problema di oggi.

Eugenio Russomanno


Caro direttore,
è di attualità la problematica dell’eutanasia e dell’aborto, volontà personali che in modo falsante vengono chiamate “diritti”. Se si trattasse di diritti naturali ci sarebbe l’obbligo morale del medico di rispettarli, e negarli sarebbe un abuso. Ma ciò non è, perché l’una e l’altro sono in contrasto con i presupposti sui quali è nata 2.500 anni fa l’arte medica, quando il medico greco Ippocrate la sottrasse al mondo del magico e la trasformò in professione, sulla base della speculazione filosofica e scientifica esercitata al riguardo da Talete, Pitagora, Diogene, Democrito, Socrate e altri filosofi, riconoscendo la vita umana come bene indisponibile per la medicina e stilando il famoso Giuramento del Medico il quale al terzo capoverso recita: «Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo». Certo, al quinto capoverso il Giuramento recita anche: «In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati...», che il medico latino Galeno tradusse con: «Divinum est sedare dolorem» (divino è alleviare il dolore); ma le due affermazioni sono complementari e mai sono state poste in contraddizione in quanto l’accanimento terapeutico non è mai stato considerato atto medico come recita il secondo capoverso del Giuramento: «Mi asterrò dal recar danno...». La Chiesa cattolica e la sua presunta “arretratezza” qui non c’entrano proprio nulla: le leggi della Medicina sono laiche e molto più antiche di quelle che Cristo ha rivelato. Si può cambiare; basta parlar chiaro e dire che si vuole abbandonare la Civiltà europea basata sul diritto naturale e sostituirla con un Regime basato su un neodiritto impositivo fatto di leggi e sentenze imposte da gruppi di pressione, come sta già accadendo a proposito della maternità surrogata, che priva il bambino non solo dei genitori naturali, ma anche (“usando” e poi nascondendo la madre o il padre o entrambi di un bimbo) del supporto medico dell’anamnesi familiare, così importante nella diagnosi e cura di tante malattie. Queste leggi e sentenze sono forti con i deboli e deboli con i forti.

Pasquale Graziano - medico


Caro direttore,
l’eutanasia è il crudo risultato dell’impotenza medica di fronte a stati clinici definiti irreversibili; una vera è propria sconfitta per l’intera umanità. In effetti, ricorrere alla “dolce morte” significa arrendersi. Comprensibile quindi il punto di vista dei credenti, tuttavia, a mio parere, spesso non esiste altra soluzione. È inumano chiedere a un essere vivente di soffrire, sprofondando lentamente e inesorabilmente verso l’oblio assoluto. Non è concepibile imporre una sorta di “via crucis” prima di giungere comunque all’inevitabile decesso. L’unica risposta coerente risiede nella ricerca scientifica: quando questa permetterà un’esistenza dignitosa anche per coloro che hanno perso la speranza. Se le campagne mediatiche (pro o contro) fossero, invece, indirizzate a favore della ricerca, forse avremmo compiuto un piccolo passo avanti verso la soluzione di tanti drammi. Inutili e deleteri gli scontri culturali tra ideologi dalle diverse vedute; fin quando non saranno compiuti passi decisivi, per rendere sopportabile l’esistenza. Un giorno tanti mali, definiti oggi incurabili, saranno debellati: il cancro sarà solo un orribile ricordo e i paraplegici potranno tornare a camminare, attraverso l’impiego di nanotecnologie robotiche. Il genoma umano sarà finalmente svelato in tutte le sue sfaccettature: la malattie ereditarie saranno quindi sconfitte. Anche i danni celebrali diverranno reversibili: la materia grigia potrà essere rigenerata. Non si tratta di utopia, ma di profonda fede nel progresso scientifico. Da noi dipenderanno i tempi di realizzazione: quanto più investiremo risorse economiche e mentali nella ricerca, quanto prima verrà il giorno in cui non sarà più necessario ricorrere alla morte assistita.

Fabrizio Vinci


Caro direttore,
comprendere non può significare condividere scelte che a mio avviso confliggono con il rispetto della vita come bene indisponibile, e pertanto sono contrario al suicidio assistito che non ritengo debba farci sentire un Paese giuridicamente incivile se non è contemplato dal nostro ordinamento. Parimenti mi lascia perplesso il tentare di far passare come priorità per il legislatore l’esigenza di normare il “fine vita” con la cosiddetta dichiarazione anticipata di trattamento. Occorre che si eviti qualsiasi forma di ipocrisia giuridica, concedendo anche per via meramente omissiva, il ricorso all’eutanasia. Quali saranno eventualmente i trattamenti terapeutici cui si potrà scientemente rinunciare? Non sono certamente un teorico dell’accanimento terapeutico, ma vorrei fosse chiaro in modo inequivocabile che se anche una vita è in fase terminale, non è accettabile anticipare il decesso, interrompendo o omettendo pratiche che consentono di svolgere le funzioni vitali; spero si abbia l’onestà intellettuale di ammettere che alimentazione e idratazione artificiale non sono da considerare opzioni terapeutiche, perché il farne a meno candida alla morte anticipata. Non considero le mie opinioni verità evangeliche, ma a chi mi facesse passare per cultore di un presunto oscurantismo catto-conservatore, mi sento di rispondere che sono fiero di non avallare presunti progressismi lesivi del diritto alla vita dal concepimento fino alla morte naturale.

Daniele Bagnai


Caro direttore,
vorrei che fosse chiaro a tutti che l’art. 3 della legge sulle Dat attualmente in discussione alla Camera è in pieno contrasto con l’art 22 del nuovo Codice Deontologico dei medici approvato due mesi fa, secondo il quale il medico tuttora può rifiutare una qualsiasi prestazione richiesta dal paziente, sia per motivi di coscienza che per convinzioni medico-scientifiche, salvo nel caso in cui vi sia imminente pericolo per la salute della persona assistita o del paziente. Normalmente un paziente non può imporre al medico la sua idea di terapia e decidere la terapia su se stesso al posto del medico, obbligandolo, ma può accettare o rifiutare le cure che il medico propone. Non rovesciamo i ruoli e le responsabilità. Vedo che ci sono alcuni che propendono per non considerare più alimentazione e idratazione supporti vitali, ma cure, ma questo non cambia il fatto che le cure le propone e le decide il medico, mentre il paziente è libero di accettarle o rifiutarle o di cercarsi un altro medico più corrispondente alle sue aspettative.

Fabio Sansonna - medico


Gentile direttore,
il dibattito sull’eutanasia può forse essere l’occasione per imparare a riconoscere (e difendere) le tante persone capaci di trasformare la malattia in testimonianza preziosa. Tra l’altro la debolezza tutelata, aiutata e accettata racconta, come nelle pagine di “Avvenire” di questi giorni, la pietà per quella che porta alla resa. Ecco, sotto al titolo «Elogio dell’ombra», che cosa scriveva Jorge Luis Borges del suo invecchiare, del suo sereno avvicinarsi alla morte, vivendo l’incipiente cecità come un avvicinamento al mistero. «La vecchiaia (è questo il nome che gli altri le danno) / può essere il tempo della nostra felicità. / L’animale è morto o è quasi morto. / Rimangono l’uomo e la sua anima. / Vivo tra forme luminose e vaghe / che non sono ancora le tenebre. / Buenos Aires, / che prima si lacerava in suburbi / verso la pianura incessante, / è diventata di nuovo la Recoleta, il Retiro, / le sfocate case dell’Once / e le precarie e vecchie case / che chiamiamo ancora il Sur./ Nella mia vita sono sempre state troppe le cose; / Democrito di Abdera si strappò gli occhi per pensare; / il tempo è stato il mio Democrito. / Questa penombra è lenta e non fa male; / scorre per un mite pendio / e assomiglia all’eternità. / I miei amici non hanno volto, / le donne sono quel che erano molti anni fa, / gli incroci delle strade potrebbero essere altri, / non ci sono lettere sulle pagine dei libri. / Tutto questo dovrebbe intimorirmi, / ma è una dolcezza, un ritmo. / Delle generazioni di testi che ci sono sulla terra / ne avrò letti solo alcuni, / quelli che continuo a leggere nella memoria, / a leggere e a trasformare. / Dal Sud, dall’Est, dall’Ovest, dal Nord, / convergono i cammini che mi hanno portato / nel mio segreto centro. / Quei cammini furono echi e passi, / donne, uomini, agonie, resurrezioni, / giorni e notti, / dormiveglia e sogni, / ogni infimo istante dello ieri / e di tutti gli ieri del mondo, / la ferma spada del danese e la luna del persiano, / gli atti dei morti, il condiviso amore, le parole, / Emerson e la neve e tante cose. / Adesso posso dimenticarle. Arrivo al mio centro, / alla mia algebra, alla mia chiave, / al mio specchio. / Presto saprò chi sono». Cordiali saluti,

Andrea Tredici
Continuo ad ascoltare. E a essere grato per il tono e la profondità delle riflessioni messe in comune da lettori e amici e collaboratori che ci scrivono commossi, indignati e comunque scossi dall’esplodere anche mediatico di casi che ci mettono davanti alla verità della vita e della morte. Non mi stanco di ripeterlo: da cristiano ho imparato che la morte non è «fine» così come la nascita non è «principio», ma entrambe sono parti e porte della vita; e da cittadino mi batto per una civiltà che sia riconoscimento del diritto della gente a una vita buona e del dovere dello Stato di servire tale comune diritto, e mi oppongo a una cultura basata sull’affermazione del diritto alla morte. E ciò che ho sperimentato e sperimento mi conferma che l’amore che genera è naturalmente “biologico”, ma è anche “spirituale” e che coloro che adottano sono padri e madri quanto e più di me.Confesso, infine, di essermi soffermato sull’espressione dell’amico lettore che parla di un «mondo non più cristiano». Non credo che il mondo sia mai stato cristiano, ma tanti suoi pezzi sì. E vedo, anche da cronista, che il mondo è ancora e sempre pieno di fatti e luoghi di Vangelo. Non credo nemmeno, sebbene intenda il senso in cui l’espressione è usata, all’«assenza di Cristo». La nostra storia è stata toccata da Cristo e, per questo, nulla è più come prima. Perché la speranza che ci è stata data (e che contempla anche le conquiste della scienza, ma non ne fa un assoluto strumento di salvezza) è più grande di ogni sfida e di ogni sconfitta. Perché siamo chiamati a continuare il tocco del Figlio, con carità e fiducia, con mano che magari trema ma non si ritrae: per accogliere, curare, consolare, carezzare. E, da bisognosi di conferma, per toccare, riconoscere e non ripetere l’infinito colpo di lancia dell’ingiustizia.