Opinioni

Perché siamo in Afghanistan. Quelle storie di donna e le domande vere

Marina Corradi martedì 3 agosto 2010
Quando, come pochi giorni fa, due soldati italiani tornano dall’Afghanistan dentro a una bara avvolta nel tricolore, e giovani vedove e bambini piangono in una chiesa gremita, non pochi forse di quelli che stanno a guardare stancamente si domandano perché. Perché laggiù, perché ancora, e quanti morti ancora dovremo lasciare, in quel lontanissimo Paese. Un comunicato reso noto ieri dal governo Karzai può interessare chi cerca, di questi sacrifici, una ragione. Il dipartimento per la Salute ha reso noto che ogni anno in Afghanistan 2.300 donne si suicidano in conseguenza delle violenze subite nella vita familiare. Donne fra i 15 e i 40 anni, che – dice il comunicato – come «risorsa estrema» di fronte a stupri, mariti violenti, matrimoni forzati, decidono che è meglio morire: dandosi fuoco, in un autoimmolarsi che sembra gridare al mondo la sofferenza inaudita nascosta dietro a quel gesto.Noi, in Occidente, fatichiamo a capire come ci si possa dare la morte in questo modo. Ma non sappiamo cosa sia, a dodici anni, essere date in sposa a un "vecchio" di sessanta; o subire una eterna violenza da un marito che non si è mai scelto. O vivere recluse dentro un burqa, che non è solo un velo per non essere viste, ma anche una prigione: da dietro quella fitta rete lo sguardo è costretto, perché la donna non possa guardarsi attorno (così come si mettono i paraocchi ai cavalli, perché tirino il carro e filino diritto).Il 28% delle afgane, dice il rapporto del Governo, soffrirebbe di depressione. Non è strano, in una generazione di donne che vive nel Duemila come nella più oscura antichità; e vede con sbalordimento che le soldatesse e le volontarie occidentali si muovono libere – libere come gli uomini. Come due evi diversi assurdamente contemporanei, che si trovino a scorrere paralleli: ma il giogo delle spose bambine, della feroce giustizia tribale resta, implacabile, imposto dall’integralismo taleban. Come due mondi che si scontrino aspramente in quelle terre: il nostro, con tutti i suoi errori ma anche la sua civiltà faticosamente conquistata, e il fondamentalismo più totalitario, che annichilisce la persona e la sua libertà.È in questo urto violento che sono possibili storie come quelle di Aisha, la ragazza messa in copertina da Time con la sua bella faccia irrimediabilmente sfigurata – per punirla di un tentativo di ribellione. È in questo urto di evi e di mondi che 2.300 donne ogni anno (ma da noi, a 15 anni, le nostre figlie le consideriamo ancora bambine) decidono che, piuttosto che così, è meglio il fuoco.Noi, in Occidente, fatichiamo a capire. Cosa vuol dire nascere bambina in un Paese in cui le rare scuole femminili vengono attaccate con i mitra o coi gas, perché a tutte, madri e figlie, passi per sempre la voglia di imparare a leggere? Chi scrive ha assistito pochi anni fa all’inaugurazione di una scuola in Afghanistan, costruita dall’esercito italiano. Ci sono rimasti in mente, di quel primo giorno di lezioni, gli occhi delle bambine: contente e meravigliate – incredule. È anche per questo che siamo in Afghanistan: per quelle bambine, per i loro sguardi. Perché la posta, su quel crinale, è anche questa: che le figlie di un Paese lontano non debbano vivere da schiave. Ci riguarda, questo? Vale, questo, che dei ragazzi italiani muoiano laggiù? Vale pretendere che una tale battaglia sia condotta senza sufficienze e tragici errori, con tutta la saggezza necessaria? Occorre domandarselo. Domandarsi se il destino e la dignità degli altri, delle altre, ci riguardano; o se capiamo ormai solo gli stretti orizzonti nostri. I soldi, il calcio, i vestiti firmati, e i confini ben protetti da stranieri miserabili – in fuga da mondi, di cui nulla vogliamo sapere.