Opinioni

Vincere il male con il bene. La forza della evangelica «rivoluzione della tenerezza»

Francesco D'Agostino domenica 15 gennaio 2017

Nell’editoriale pubblicato su questo giornale il 3 gennaio, Pierangelo Sequeri usa parole forti contro l’odio, ciò che «avvelena i pozzi della comunità umana», la cifra «furiosa e irrazionale», che meglio di ogni altra riassume gli anni che stiamo vivendo. «L’odio, quando è tollerato, non ascolta più ragioni né religioni». Quindi «non c’è libertà di espressione per l’odio». Quindi ancora: «Non si devono fare distinzioni con l’odio». E questo non deve essere soltanto un augurio; deve anche e soprattutto essere «una promessa forte come un giuramento davanti a Dio». Si possono usare espressioni più inequivocabili di queste? Probabilmente no. Eppure, ancora più nitide sono le espressioni che Sequeri usa per indicare quello che deve essere il nostro modo, il modo cristiano, di opporci all’odio. Ricordando papa Francesco, egli usa un’espressione che i più (coloro cioè che hanno dimenticato o mal compreso o rimosso il messaggio evangelico) potrebbero ritenere melensa, ma che invece – proprio perché radicata nella predicazione di Gesù – possiede una forza incredibile: la «rivoluzione della tenerezza». Il male si vince non con il male, ma attraverso il bene.

Parole facili a ripetersi, ma difficilissime a comprendersi, perché il 'bene', unica arma che abbiamo per contrapporci al male, sempre più spesso oggi è banalmente inteso come 'tolleranza'. La tolleranza è una splendida pratica sociale, a condizione però che non si riveli ottusa, ingenua e irresponsabile. Una tollerante ottusità infatti si traduce alla fin fine nell’accettazione diffusa di pratiche che corrompono non solo noi, ma, cosa ben più grave, anche e soprattutto i nostri figli. Come impedire che la tolleranza venga distorta fino a tal punto? Mantenendo una distinzione di piani che il cristianesimo ha sempre rivendicato, ma che deve anche riconquistare generazione dopo generazione: quella tra il bene sociale (garantito dal diritto) e il bene spirituale (garantito dall’etica e soprattutto dalla fede). Per il cristiano non può esserci alcun dubbio: il modo veramente radicale per combattere il male è quello spirituale, che, sempre per il cristiano, si riassume nell’imitazione di Cristo, che «oltraggiato non rispondeva con oltraggi e soffrendo non minacciava vendetta», come spiega pazientemente san Pietro ai destinatari della sua prima lettera.

Ma la radicalità dell’impegno evangelico è come l’ultimo gradino di una scala che va percorsa tutta, con umiltà, a partire dal primo gradino. E il primo gradino di questa scala è rappresentato appunto dal diritto, che dice di no al male garantendo la dimensione più piccola del bene, quella che chiamiamo giustizia e che San Tommaso non a caso qualificava come un «minimo etico».

Una dimensione che in sé e per sé non ci garantisce la salvezza (perché si può rispettare la giustizia senza amore), ma che della salvezza costituisce il presupposto (non può salvarsi chi non sia giusto). La prima parola che tutti dobbiamo pronunciare contro l’odio è una parola di giustizia (difficile, ma non impossibile a pronunciarsi. L’ultima è quella dell’amore (talmente difficile a pronunciarsi, che non riesce a venirci alle labbra senza l’aiuto della grazia di Dio). Ciò significa che l’odio non va scioccamente tollerato, ma va attivamente combattuto, non con gli strumenti che dell’odio sono propri (primo tra tutti la violenza), ma con quelli che sono invece propri del diritto (la giustizia, anche e soprattutto nella sua dimensione più severa, quella penale).

Realizzata la giustizia, si apre – in particolare per i cristiani – lo spazio davvero sconfinato della «rivoluzione della tenerezza», che non ha nulla da temere dalla severità del diritto, perché questa severità non la contraddice, ma la precede e in qualche modo la prepara. La punizione (che è autentica, solo se giusta) non è un male, ci ricorda costantemente san Tommaso. E il perdono, che della «rivoluzione della tenerezza» è la prima espressione, non è negazione della punizione (ritenuta oggi improvvidamente inappropriata o peggio ancora superflua), ma il suo inveramento, per la cui autenticità è indispensabile il radicamento nell’amore.

E poiché oggi nessun paradigma è divenuto così ambiguo come quello dell’amore, non deve stupirci l’ambiguità che sta travolgendo, una dopo l’altra, categorie come appunto quella del perdono, quella della pena, quella del male e (ahimè!) quella stessa del bene.