Opinioni

Lotta al jihadismo e «pace positiva». Vincere serve e non basta

Riccardo Redaelli martedì 29 giugno 2021

È una piacevole sensazione il vedere l’Italia riposizionarsi con autorevolezza al centro della politica internazionale, con una crescita di attenzione sia nell’Unione Europea sia nel rapporto con gli Usa. Lo dimostra anche questa missione di tre giorni del segretario di Stato americano Antony Blinken, così densa di incontri (ha incontrato oltre a papa Francesco, anche Draghi e Di Maio) e di tavoli di lavoro, il primo dei quali è stato la riunione della Coalizione internazionale contro Daesh, di cui il nostro Paese è co-presidente. Ma questi attestati di fiducia verso il ruolo dell’Italia a livello multilaterale devono poi inevitabilmente trovare corrispondenza in azioni e progetti reali.

E sicuramente qualcosa noi possiamo dire e fare proprio a partire dalla lotta contro il sedicente Stato islamico o Daesh. Ai non addetti ai lavori può sembrare uno sforzo inutile: il sanguinoso califfato jihadista non è forse stato sconfitto, riconquistando con tenacia le città irachene e siriane che erano cadute sotto il suo tetro giogo? E non è vero che da tempo le città europee non conoscono più i terribili attentati dello scorso decennio, che tanti morti avevano mietuto a Parigi, Nizza, Bruxelles, per citare solo quelli più eclatanti? Se una cosa abbiamo, però, imparato nella lotta contro il jihadismo, sia di matrice qaedista sia ispirato al Daesh, è che esso ha una straordinaria capacità di rivitalizzarsi e di mutare forme e modi, spiazzando le difese. Entrambe le principali organizzazioni jihadiste sono capaci di attecchire rapidamente in luoghi nuovi e diversi, muovendo miliziani e forgiando cellule: dal Medio Oriente al Maghreb, dall’Asia centrale all’Africa centro-meridionale, attraverso tutto il continente europeo. Il loro messaggio semplificato sfrutta i social e i canali informali, con forme di radicalizzazione molto veloci e difficili da contrastare. È il cosiddetto low tech terrorism, a bassa intensità, che non richiede grandi tecnologie – un coltello in Germania, come avvenuto pochi giorni fa, un Tir in Francia – e che spesso si basa sull’effetto di imitazione da parte di singoli musulmani radicalizzati. Le cellule jihadiste cambiano obiettivi, modelli di comunicazione, forme di propaganda, territori in cui radicarsi, modalità della violenza, costringendo noi a rincorrerli.

È evidente allora che la sola parte repressiva non basta, anche se è indubbiamente necessaria; anzi va rafforzato da questo punto di vista il coordinamento dell’azione della coalizione, oggi spesso limitata da diffidenze, rivalità e diversità di obiettivi. Ma sarebbe pericoloso illudersi che sconfiggere la minaccia jihadista significhi distruggerla con la forze militare o gli apparati di sicurezza.

Rischieremmo di finire in un vecchio e un po’ crudele gioco per bambini, 'Trova la talpa', in cui col martello si deve cercare di colpire l’animaletto che ricompare in continuazione da buchi diversi. Al contrario, è fondamentale rafforzare quelle politiche multilaterali che mirano a costruire una 'pace positiva', riducendo le radici del conflitto, dell’odio, del senso di alienazione, tutti fattori che spingono a scelte nichiliste e autodistruttive come proprio l’adesione al Daesh. Occorre non solo prendere coscienza, ma spingere la comunità internazionale a promuovere con più forza politiche adeguate e coordinate, che combattano l’intreccio di sottosviluppo, polarizzazione identitaria e settaria, violenza e mancanza di prospettive politiche e socio-economiche, che costituiscono spesso terreno di coltura per questo fenomeno. Ecco dove l’Italia può incidere, alla luce della sua tradizione culturale, diplomatica e di cooperazione. Nello spirito della cultura della tolleranza e del rispetto fra le comunità etniche e religiose perseguita con successo da papa Francesco nei suoi incontri in tutto il mondo e specialmente nel Vicino Oriente. Ma questo sforzo non riguarda solo territori lontani, significa anche combattere le spinte populiste islamofobe che attraversano l’Occidente e favorire un processo maturo di intercultura: non mirare a omologare o a eliminare le diversità, né a derubricare l’esperienza di fede a mero dato privato – come avviene spesso in Europa –, ma lavorare per negare ogni legittimità alla violenza in nome di Dio, offrendo e chiedendo rispetto vero per tutte le comunità religiose.