Opinioni

Vince chi partecipa. La lezione dell’intesa sui contratti

Francesco Riccardi giovedì 1 marzo 2018

La gestazione è stata lunga, ma l’intesa raggiunta l’altra notte tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria sulle relazioni industriali e la contrattazione collettiva, segna un importante avanzamento e apre una prospettiva davvero nuova per il lavoro e il sistema produttivo nel nostro Paese.

In verità, ci sarebbe più di un motivo per dubitare dell’efficacia dell’ennesimo accordo interconfederale. Non fosse altro, appunto, perché la prima intesa in materia è del 2009, poi rivista nel 2011, completata nel 2014 e ulteriormente precisata nel 2016, senza che il sistema contrattuale e la rappresentanza abbiano subito profonde innovazioni nel corso di quasi un decennio. Anzi, è proprio il sostanziale fallimento di quei precedenti accordi ad aver spinto oggi gli stessi attori sociali a firmarne uno nuovo. Che cosa, allora, spinge a dar credito a questo che è stato ribattezzato come il "Patto della fabbrica", cosa induce a pensare che sia la volta buona per un cambiamento reale? Tre aspetti: necessità, consapevolezza e disponibilità.

L’intesa, infatti, muove anzitutto dalla necessità di mettere un freno ai troppi "contratti pirata", stretti fra sindacati filo-padronali e aziende che agiscono al limite della legalità. Questi contratti – quasi la metà degli oltre 800 registrati – forniscono una parvenza di legalità a rapporti che vanno in realtà a danno di diritti, salute e salario dei lavoratori, configurando inoltre una concorrenza sleale nei confronti delle imprese che producono rispettando gli standard migliori.

Per confederali e Confindustria, la necessità è anche quella di reagire a una propria crisi di rappresentatività, da un lato per la difficoltà a rappresentare le nuove realtà del lavoro e dell’industria e, dall’altro, alla tentazione della politica di marginalizzare il ruolo dei corpi intermedi. Il nuovo sistema di "Trattamento economico minimo" fissato dai contratti nazionali rappresenta infatti il tentativo di rispondere all’offensiva del "salario minimo fissato per legge", che le parti sociali vivono come una pericolosa invasione di campo. Queste necessità hanno dunque spinto tutte le organizzazioni a una maggiore apertura, ad assumere un ruolo costruttivo.

E chi oggi si impegna con l’obiettivo di «ricucire» il Paese – per usare un’espressione del presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti – anziché approfondirne le lacerazioni, merita credito e supporto. La Cisl di Annamaria Furlan è stata certamente il motore dell’intesa, ma va dato atto alla Cgil di Susanna Camusso di aver messo da parte le pregiudiziali e alla Confindustria di Vincenzo Boccia di aver saputo innovare il proprio approccio. C’è, in questo accordo, soprattutto una nuova consapevolezza. Del proprio ruolo di intermediazione e della centralità della contrattazione.

Di relazioni industriali pensate come confronto di prospettive diverse, accomunate da un obiettivo convergente. Quello della crescita, che non ha solo la cifra economica dell’utile di bilancio, ma ricomprende tanti aspetti: la maggiore occupazione dei giovani, l’aumento dei salari, la sicurezza sul lavoro, una migliore copertura di welfare. Una crescita che si fonda sulla maggiore produttività, favorita da tre fattori: formazione, ricerca e investimenti. È la consapevolezza che si cresce solo lavorando non con gli sconti o i sussidi; migliorando la formazione dei dipendenti prima che abbassandone i costi, investendo nella ricerca anziché nelle speculazioni finanziarie. In questo accordo, però, la novità più importante è il terzo elemento: la disponibilità reciproca, riassunta in una parola finora tabù tanto per le imprese quanto per la parte più conflittuale del sindacato, e oggi invece ripetuta più volte nel documento siglato ieri: partecipazione.

La chiave di tutto è questa disponibilità da parte di imprenditori e sindacati a partecipare insieme all’organizzazione del lavoro, alla gestione dei processi, fino alla «definizione degli indirizzi strategici» dell’impresa. La rivoluzione tecnologica di Industria 4.0 – il cambiamento dalle enormi potenzialità e gli altrettanto grandi rischi per i lavoratori – si può governare solo con la partecipazione di tutti, spostando più avanti la frontiera dei rapporti sociali. Una lezione preziosa in questa tesa vigilia elettorale.