Opinioni

Editoriale. Il Giovedì Santo dentro di noi: cosa significa servire?

Eraldo Affinati giovedì 28 marzo 2024

Mi piace pensare che abbiamo tutti, dentro di noi, un Giovedì Santo: per il cristiano è un pensiero vertiginoso, l’artefice che, innamorato della sua creatura, si fa piccolo e l’accudisce alla maniera dei genitori coi figli; per il non credente potrebbe assomigliare alla “confederazione degli uomini”, auspicata dall’ultimo eroico Giacomo Leopardi della Ginestra, pronti a sostenersi a vicenda nel tentativo di contrapporsi all’“empia natura” realizzando “il vero amor”. Il racconto evangelico, giunto al punto culminante dell’Ultima Cena, possiede una forza ineguagliabile apprezzabile da ognuno. Siamo al cospetto di una torsione della civiltà occidentale, senza cui, per citare un solo esempio, il grande romanzo russo ottocentesco, perno essenziale del carattere moderno, non sarebbe quello che è. Sfoglio qualche mio vecchio appunto. L’indimenticabile maestro, capace di tenere insieme adolescenza e maturità, timido e sfrontato al tempo stesso, che aveva scelto la roccia nuda della Galilea quale scena del mondo, di lì a poco se ne sarebbe andato in un luogo irraggiungibile. Negli ultimi tempi parlava sempre del Padre. Sentiva anche fisicamente il suo richiamo imperioso. Dove si trovava la casa avita in cui sarebbe tornato? Tutti se lo chiedevano. Nel momento in cui lui fosse scomparso, che vita avremmo avuto? E coloro che lo avevano incontrato, come avrebbero ricostruito il legame spezzato? I discepoli rimuginavano tra sé e sé senza riuscire a formulare ad alta voce le proprie domande interiori, ma Gesù li prevenne con uno scatto lirico dicendo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi».

Gli apostoli, pur restando affascinati, non capirono. Appena furono da soli, ricaddero subito nei vecchi errori. Quando lui non ci sarà più, cosa ti prenderai tu e cosa mi prenderò io? Dove finirà la tua giurisdizione e inizierà la mia? Ecco come nascono le religioni: allo stesso modo delle aziende e dei partiti. Dammi il timone, voglio guidare la barca, stabilire la rotta. Stiamo parlando dei medesimi uomini che fino a poco prima si specchiavano stupefatti negli occhi del profeta? Incredibilmente sì. Stesso conio. Da apostoli a bottegai. Gesù, che si era assentato per pochi minuti, tornò nella sala e guardò i suoi amici con una misericordia infinita, poi disse: «Avete presente i sovrani di questa terra? Non dovrete essere così». E allora, essi si chiesero, cosa dovremmo fare? Questa è la vera unica grande domanda che tutti ci poniamo. E allora proviamo, ancora una volta, a sciogliere le parole che il figlio del falegname continua a rivolgerci alzando il braccio del saluto prima di partire: «Guardate me. Non sono io venuto qui a questa tavola al vostro servizio? Non ho appena lavato i vostri piedi? Per questo adesso vi affido l’eredità del Regno di Dio, la stessa che mio Padre ha dato a me. La stessa, capite? Io ve la cedo». Sulla carta potrebbe sembrare un compito impossibile da eseguire. Ma forse non dovremmo pensare a chissà quali imprese da compiere. Il segno del cambiamento interiore richiesto dal Nazareno dovrebbe emergere dalla particolare qualità dei rapporti umani che siamo in grado di mettere in campo, beninteso, con tutti i nostri pesanti limiti.

Si diventa cristiani non per affiliazione diretta, come entrando in una setta chiusa, in un circolo esclusivo, in una compagine ristretta; no, non così: lo si diventa assumendo su di sé il peso degli altri, in primo luogo quelli distanti da noi: nessuno escluso. Percorso doloroso, inutile nascondersi dietro a un dito, ma ricco di sorprese, non proibitivo. Cosa c’era di speciale nella predicazione del giovane rabbi? Nient’altro che lui: la frontalità con cui si poneva. Vieni avanti e prendimi in carico. Diventa mio vicario. Se lo farai, io resterò sempre dentro il tuo cuore. E tu mi rappresenterai davanti a tutti gli altri, i quali, stai attento, mi riconosceranno in te. Io vivrò soltanto se tu mi accoglierai. Non forzerò la mano. Esistono cristiani che non sanno di esserlo. Ne conosco: sono quelli che mi attirano di più. Se li prendessi uno a uno e gli chiedessi dove trovano le motivazioni per fare ciò che fanno – cose che io non riuscirei mai a compiere: non voglio elencare le buone azioni, penso alla spoliazione di sé – sono certo che mi risponderebbero: hai capito male, non vado a Messa, non frequento la parrocchia, forse da bambino ho avuto un’educazione cattolica ma l’ho presto abbandonata, non faceva per me, comunque non mi pongo questi problemi. Eppure sono loro, i cosiddetti lontani, come a volte vengono definiti, non tutti, è ovvio, soltanto qualcuno, che potrebbero insegnare a molti di noi, nella quotidianità, coi fatti e non con le parole, cosa vuol dire davvero servire il prossimo.