Opinioni

La testimonianza. Venerdì Santo, l'angoscia di non trovare «il mio» Crocefisso

Marina Corradi venerdì 29 marzo 2024

Ogni volta, a Roma, la prima tappa è la stessa: Basilica di Santa Sabina, all’Aventino. Entro e vado spedita in fondo alla navata sinistra, dal “mio” Crocefisso. Come andare da qualcuno di caro, che ti aspetta. Ma oggi, 29 marzo, non credo ai miei occhi. In fondo alla navata lui non c’è. Non è qui. Niente, sull’altare spoglio. Avverto un percepibile tonfo del cuore. Come se una sera torni a casa e dici “ciao”, e non ti risponde nessuno. Sbalordimento. Lui non c’è. Un dolore che non immaginavo di poter provare. Quel Dio che mi pare spesso così lontano, forse mi è più caro di quanto io credo.

Poi ho capito. A Milano, nel rito ambrosiano, il Venerdì Santo il Crocefisso è in genere velato da un paramento viola. Velato, però c’è. Non sapevo che nel rito romano è possibile togliere, il Venerdì, il Crocefisso dagli altari. Almeno così mi ha spiegato il domenicano che ho fermato a Santa Sabina. Non convinta, ho chiamato un amico vescovo, che me lo ha confermato. Fuori dalla Basilica, nel Giardino degli aranci, l’ebbrezza di inizio primavera. Ma io ripensavo a quel tonfo del cuore, nel non trovare lui, il primo che cerco a Roma. Pensosa, per caso dunque sono entrata nella Basilica di Sant’Alessio, che è lì accanto. C’erano tanti ragazzi. Degli Esercizi spirituali. Mi sono seduta, ad ascoltare. Ho riconosciuto la cadenza della poesia di Charles Peguy - come un passo, un accordo di note che si ripete. Il testo diceva di Maria, pellegrina, smarrita, confusa nel corteo verso il Golgota. Una frase mi ha trafitto: “Da tre giorni piangeva. Piangeva, piangeva. Come nessuna donna ha mai pianto”. Come nessuna donna ha mai pianto. (Commossa. E, anche, un soffio di paura. In questo tempo rivoltato di guerre e minacce, in quante piangeranno? Ma ho cancellato subito il pensiero, come un’assurda interferenza).

È straordinario Peguy, ne “Il mistero della carità di Giovanna d’Arco”. Il giovane lettore proseguiva. Sentite, la Crocefissione: “Sul Golgota. Sulla cima. Fino alla cima. Dove egli era adesso crocifisso. Con le quattro membra inchiodate. Come un uccello notturno sulla porta d’un granaio”. Passa dentro al verso, come un filo in una trama, un dolore indicibile. Eppure reso comprensibile, quasi visibile. Ali di uccello frementi inchiodate, braccia vive di un uomo trafitte su una croce. Di nuovo quel dolore di prima: una morte vera, un lutto vero. Forse noi cristiani siamo così abituati alla Resurrezione, che dimentichiamo che Cristo è morto davvero, e in che modo. Torturato, schernito, sputato. Quel ragazzo, che adesso, a sessant’anni, immagino come un figlio. Siamo così consapevoli della Resurrezione che - almeno quelli di fede malferma come me – rischiamo di dimenticare il Venerdì, e la notte del Sabato. Quanto lunga fu quella notte, per chi aveva creduto in Gesù? E lui era morto. Era stato tutto un sogno. Lo smarrimento dei discepoli a Emmaus, la annichilita attesa di Maddalena al Sepolcro. Interminabili. Lui era morto. Si sarebbe levato ancora, il sole? Non c’era più alcun senso. Soltanto il buio e il vuoto. Ma, ancora Peguy. Maria affannata, smarrita “come una servente” nel corteo verso il Golgota, “Adesso chiedeva la carità. Senza averne l’aria chiedeva la carità. Perché senza averne l’aria, senza neanche saperlo chiedeva la carità della pietà. Di una certa pietà. Di una pietà. Pietas”. Maria mendicante dietro al figlio che va a morire. E, di nuovo, la percezione di un dolore. Di una morte vera. Di una madre, che sta impotente a guardare. Quel Dio che celebriamo vincitore della morte, e sua madre splendente in mille opere d’arte, incoronata come una regina, in questo Venerdì mi appaiono nell’ ora dell’agonia: vittime. Agnelli. Così, quanto profondamente vicini: agli affamati di Gaza, ai loro bambini. Ai bambini dei kibbutz israeliani, la notte del 7 ottobre. Agli ucraini sotto le bombe, o in trincea. Ai soldati russi, anche, a quelli che in guerra non volevano andare, e alle loro madri. Cristo e sua madre così vicini oggi, perfino a una borghese italiana come me, che ha apparentemente tutto. C’è vento a Roma, sa di gelsomini e di aranci. Eppure mai come qui ho percepito almeno un frammento il dolore della Passione di Cristo - e di Maria. È importante, attraversare il dolore del Venerdì santo. Non dimenticarsene. Solo così mi pare di capire: è risorto. Come credere che tuo figlio sia morto, e riabbracciarlo. Soltanto lasciandomi percorrere da questo dolore sono nella Pasqua. In quella pietra rotolata, e nella sbalordita felicità di Maddalena: “Rabbì!”. Lo slancio per abbracciarlo – lei desolata, lei che aveva vegliato fino all’alba.