Opinioni

Vittime innocenti. Usa, perché le armi fanno strage di bambini neri

Elena Molinari mercoledì 18 marzo 2015
​Il bambino era stato colpito sei volte, due al petto. Era agosto, e Antonio, di nove anni, era corso fuori dall’appartamento soffocante di Grand Crossing, a Chicago, arrabbiato perché la madre gli aveva negato i soldi per un gelato. Pochi minuti dopo, il membro di una gang del South side lo aveva scambiato per la sentinella di una banda rivale. E lo aveva freddato. La scena aveva attirato alcuni curiosi, più che altro perché si trovava a pochi metri da due stazioni di benzina e lungo una strada principale. Due settimane dopo, nel West side della stessa città, i colpi partirono da una macchina. Dopo aver percorso sibilando una strada senz’alberi, attraversarono la gamba e il cuore di Jarred, che era seduto sul portico di assi di casa sua. I proiettili che misero fine alla corta vita di Damien, invece, passarono in mezzo a un giardinetto attorno al quale, qualche ora dopo, gli agenti stesero un nastro giallo di plastica. In questo caso non si radunò una gran folla. Dopotutto Damien, come Antonio e Jarred, aveva la pelle scura e la sua morte, statisticamente parlando, non era un fatto straordinario. La principale causa di morte per i giovanissimi americani neri e latinos fra i 9 e i 21 anni proviene infatti dalla canna di una pistola.
Mentre la maggior parte degli Stati Uniti gode di una sicurezza senza precedenti, nella guerriglia urbana fra gang rivali o fra neri e polizia che tiene in ostaggio una dozzina di ghetti metropolitani, le vittime principali sono i bambini afroamericani e latinoamericani. È una fetta di popolazione non molto rilevante, compongono solo il 15% della popolazione degli Stati Uniti. Ma rappresentano il 45% delle vittime da arma da fuoco. Se si leggono gli stessi numeri in prospettiva storica, si scopre che per ogni soldato americano caduto in Afghanistan durante 11 anni di guerra, almeno 13 bambini sono stati uccisi sul suolo americano. E l’emergenza non fa che peggiorare. La morte di Damien, Antonio e Jarred, lo scorso anno, ha segnato l’apice di dodici mesi in cui la violenza contro i bambini nei ghetti di colore è diventata quotidiana come i bollettini di morte dall’Iraq o dalla Siria. Solo nel 2014, più di 450 piccoli non sono arrivati alla scuola materna per colpa di un’arma da fuoco. Altri 2.700 sono stati uccisi prima di poter sedersi al volante di un’automobile. E i primi tepori primaverili hanno già riaperto la stagione delle armi a Chicago, dove solo la scorsa settimana 28 persone sono state colpite da proiettili.
«La violenza da arma da fuoco ha un impatto impressionante sui bambini dalla pelle scura – commenta Caroline Fichtenberg, direttore della ricerca del Children’s Defense Fund –. La gente pensa che il controllo delle armi sia roba da dibattiti politici, mentre è un problema che coinvolge da vicino le famiglie di molte città americane». Di recente, in occasione di un’ennesima sparatoria, il Chicago Tribune ha dolorosamente ricapitolato con un saggio fotografico il terrore che ha destabilizzato interi quartieri. Ma mentre i giornalisti televisivi correvano all’esterno di condomini bui e casermoni a schiera, mostrando madri devastate, altri titoli nel quotidiano suggerivano che il resto d’America ha altri problemi. La violenza armata è precipitata infatti dal 1993 negli Stati Uniti, dove il tasso di criminalità è ai minimi degli ultimi cinquant’anni. Perché allora alcuni quartieri, dal lato sud e ovest di Chicago a quello nord di Filadelfia, da Oakland a Detroit, da Ferguson al centro di Newark, devono ancora sopportare tanta sofferenza collettiva?
La povertà e la segregazione razziale, che derubano i giovani di opportunità, sono le prime cause citate dai sociologi. Ma discriminazione e indigenza concentrata non sono mali sociali nuovi e da sole non spiegano perché negli ultimi dieci anni i bambini di colore siano stati feriti o uccisi in numeri così alti. Un fattore che si è aggiunto relativamente da poco ad peggiorare l’abbandono di queste comunità è la quantità di giovani dietro le sbarre. I tassi d’incarcerazione dei quartieri più poveri e più scuri d’America sono infatti senza precedenti nella storia. Nel 2001, un uomo nero su sei era in cella. Alla fine del 2013 si è arrivati a uno su cinque, con conseguenze devastanti. Comunità economicamente fragili sono affondate nella miseria, perché chi ha un precedente penale non trova lavoro. Inoltre, con i neri incarcerati a sei volte e latinos a tre volte il tasso dei bianchi, milioni di bambini sono stati resi orfani. Oltre a non avere nessuno che li tenga lontani dalle strade, questi ragazzi spesso sperimentano anche alti tassi di shock post-traumatico per aver assistito a episodi brutali o agli arresti dei loro genitori.
È il caso della figlia maggiore di Aireana, una 26enne di Oakland che si trovava in auto quando un uomo ha fatto fuoco contro di loro. La piccola, di sei anni, era seduta sul sedile posteriore. Aireana ricorda di aver sentito qualcosa che sbatteva contro la sua mascella e un suono simile a un petardo. Immediatamente si è girata a controllare la bambina. Era al sicuro. Poi si è accorta del sangue che le sgorgava dal collo. In preda al panico, si è schiantata contro una macchina parcheggiata. Aireana allora ha avuto un solo pensiero: non posso morire davanti a mia figlia. Si è slacciata la cintura di sicurezza e si è spinta fuori dalla macchina. Prima di cadere al suolo, ha sentito la figlia urlare: «Mia mamma sta morendo!» Aireana ce l’ha fatta. Ma due anni più tardi, la piccola si rifiuta di uscire per strada.Nel corso degli ultimi dieci anni, i ricercatori sono riusciti a quantificare gli effetti di questa violenza implacabile. Hanno esaminato i residenti dei quartieri ghetto di città come Detroit e Baltimora e notato chiari segni di disordine da stress post-traumatico: incubi, pensieri ossessivi, un costante senso di pericolo. Il comune di Chicago ha intervistato più di 8mila abitanti del centro urbano, la maggior parte afroamericani. Due terzi erano stati violentemente attaccati. La metà conosceva qualcuno che era stato assassinato. Delle donne, un terzo era stato violentato. Circa il 40 per cento dei bambini aveva sintomi da stress post-traumatico, un tasso superiore a quello dei reduci delle guerre in Vietnam, Iraq e Afghanistan. «La violenza delle armi impedisce a migliaia di bambini di vivere normalmente», spiega Arthur Evans, commissario del Dipartimento di salute comportamentale di Filadelphia.
Negli ultimi otto anni, i funzionari della città hanno lavorato con gli ospedali, i pediatri e soprattutto gli insegnanti per assicurarsi che i residenti colpiti dalla violenza ricevano assistenza. «Gli studenti che abbiamo incontrato devono subire una serie di fattori estremamente traumatici – spiega LaVome Robinson, docente di psicologia alla DePaul che guida il progetto –. Scuole non sicure, strade sono sicure, e case non sicure. In queste comunità c’è un livello di paura con cui nessun bambino dovrebbe convivere». La madre di Antonio è stata toccata sul vivo da quella paura e da quell’orrore. «Non voglio che questo succeda più – ha detto quando ha appreso della morte del figlio –. Non voglio che nessuno si vendichi perché non voglio più morte. Voglio che i bambini crescano in pace».