Opinioni

Post-pandemia. Un'insolita penuria di merci agita la società dei consumi

Elena Molinari mercoledì 27 ottobre 2021

Quali sono le cause della carenza di prodotti nei maggiori mercati del mondo

All’inizio erano le biciclette. Poi gli attrezzi per fare ginnastica in casa. La farina e le macchine da cucire. Oggi uno dei maggiori fornitori di frutta australiani ha due container pieni di mele parcheggiati da quattro settimane in Nuova Zelanda in attesa di una nave per Los Angeles. A Tokyo bisogna aspettare cinque mesi per la consegna di un Suv. E Parveen Sharma, presidente della società di trasporti American International Shipping Company avverte: «Se non era su una nave quattro settimane fa, non ce l’avrai per Natale». I movimenti di merci a livello mondiale sono diventati imprevedibili, i ritardi nelle consegne sono all’ordine del giorno e i prodotti introvabili sempre più numerosi. In Italia gli effetti più ampi di questa crisi ancora non si vedono del tutto, se non sul fronte dei prezzi, ma può essere solo una questione di tempo, perché altrove il problema è già esploso. Il fatto è che nel mondo sviluppato non eravamo abituati a conoscere una penuria di prodotti, a consumare a singhiozzo, a vedere scaffali vuoti e a cercare merci che mancano.

Quali sono le cause della carenza di prodotti nei maggiori mercati del mondo

Cosa sta succedendo? La colpa è della pandemia, ma non solo. Gli elastici dei lockdown alternati alle riaperture che si tendevano e rilassavano in turno in tutti i Paesi del mondo si sono ingarbugliati con tensioni commerciali esistenti, gli effetti dei cambiamenti climatici e una crisi energetica. Il risultato è una matassa difficile da sbrogliare, che secondo gli esperti continuerà ad avere effetti negativi per i prossimi due anni. Per gli europei pronti a tornare alla normalità è difficile capire perché auto ed elettrodomestici siano diventati così rari. La risposta va cercata in una catena di approvvigionamento divenuta negli ultimi 30 anni più complessa, globale e rigida. La maggior parte delle aziende occidentali di beni durevoli, prodotti tecnologici, abbigliamento, calzature e mobili ha infatti decentralizzato in Asia la produzione di un numero crescente di prodotti o di loro componenti. Spesso persino l’assemblaggio viene affidato ad appaltatori, creando una dipendenza da una combinazione di aerei, navi, camion e magazzini per riunire i componenti, spedire i prodotti e immagazzinare l’inventario.

Negli Stati Uniti, ad esempio, la maggior parte delle importazioni proviene dalla Cina, ma spesso transita per il Messico e il Canada o per altri Paesi asiatici o est-europei. La pandemia da un anno e mezzo non fa che gettare sassi (stop improvvisi) negli ingranaggi – esasperando una carenza di magazzini, navi e camionisti già grave prima del Covid – tanto che ora il meccanismo è del tutto inceppato, proprio quando la domanda di beni si è impennata grazie al denaro degli interventi pubblici di stimolo negli Stati Uniti e in Europa, al ritorno al lavoro e a un aumento degli acquisti online, che hanno compensato una diminuzione nel consumo di servizi. I ritardi sono particolarmente evidenti perché le aziende negli ultimi decenni hanno tagliato il costo dei magazzini operando con scorte minime e affidandosi a spedizioni 'just in time'. Le preoccupazioni per la diffusione del virus e delle sue varianti, oltre alla Brexit nel caso della Gran Bretagna, hanno inoltre reso più difficile per i camion attraversare i confini, rallentando ancora di più gli spostamenti di merci. Non è facile inoltre riavviare le fabbriche dopo che sono state chiuse.

Nel mondo sviluppato non eravamo abituati a consumare a singhiozzo e vedere scaffali vuoti. Una matassa difficile da sbrogliare, che secondo gli esperti continuerà ad avere effetti negativi per i prossimi due anni

Le materie prime devono essere ordinate e possono essere necessarie settimane per far ripartire la produzione. Infine non bisogna dimenticare che in Asia, dal Vietnam alla Malesia, dove la copertura vaccinale rimane bassa, molte fabbriche e porti sono ancora chiusi a causa del Covid-19. Gli ingorghi delle navi portacontainer stanno crescendo all’ingresso dei porti: la scorsa settimana almeno 659 navi in tutto il mondo erano in attesa di scaricare, e nei porti di Los Angeles e Long Beach (California), il tempo medio di scalo è aumentato di oltre il 70% dall’inizio della pandemia, nonostante da una decina di giorni siano entrambi operativi 24 ore su 24. Risultato: le carenze si moltiplicano, dalle spezie alla lana, dai giocattoli agli iPhone. Alcuni portano ad altri: la mancanza di semiconduttori ha costretto le case automobilistiche a chiudere alcuni stabilimenti. E la riduzione dell’offerta porta a prezzi più alti che potrebbero a loro volta spingere le banche centrali ad inasprire le loro politiche monetarie, con il rischio di rallentare la ripresa economica.

Alle cause strettamente legate al Covid si sommano inoltre nodi nei rapporti commerciali internazionali mai sciolti. Il rafforzamento da parte degli Stati Uniti del controllo sui trasferimenti di tecnologia alla Cina, ad esempio, ha contribuito all’interruzione delle catene di approvvigionamento dei semiconduttori. E intoppi nel settore dell’energia. In Cina la produzione interna di carbone non basta più a soddisfare la domanda, e si stanno verificando interruzioni di corrente elettrica. Molte aziende, compresi i subappaltatori della casa automobilistica statunitense Tesla e di Apple, hanno dovuto chiudere temporaneamente a settembre perché non potevano avviare le loro macchine. Con il costo del carbone alle stelle, le centrali elettriche non hanno motivo di aumentare la produzione poiché il prezzo di rivendita dell’elettricità è limitato. Le province devono inoltre rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra e hanno chiuso alcune centrali a carbone, senza che la loro produzione elettrica sia stata rimpiazzata da centrali con fonti rinnovabili.

Una tempesta perfetta che non era stata prevista dagli economisti e che avrà bisogno di tempo e di interventi per placarsi

Il che ci porta a parlare degli effetti del cambiamento climatico, che si sono moltiplicati la scorsa estate, con una storica ondata di caldo in Canada, incendi che hanno devastato l’ovest americano, bloccando il trasporto ferroviario per settimane, la siccità di Taiwan che ha fermato la produzione nelle fabbriche di semiconduttori ad alta intensità d’acqua, e uragani che hanno colpito le regioni costiere del Golfo del Messico interrompendo la produzione di petrolio degli Stati Uniti. Una tempesta perfetta che non era stata prevista dagli economisti e che avrà bisogno di tempo e di interventi governativi per placarsi. I responsabili delle società di spedizione chiedono infatti politiche commerciali più lungimiranti.

Gli economisti chiedono investimenti più importanti nelle energie rinnovabili in questo delicato momento di graduale abbandono dei combustibili fossili. E i dirigenti degli stabilimenti asiatici chiedono ai loro Paesi più vaccini e maggiori obblighi di vaccinazione. Secondo molti osservatori, è già troppo tardi per salvare il boom delle vendite di Natale. Joe Biden ha giù avvertito gli americani che non avranno tutti i loro regali sotto l’albero. Non è detto che sia un male. La pandemia ci ha costretti a vivere con meno servizi. Il post-pandemia ci sta rivelando la nostra dipendenza dai beni di consumo. Impareremo qualcosa dall’esperienza.